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Il tradimento occidentale dell’Egitto: una bomba a orologeria?

Morsi egitto

Di Amr Darrag. The Guardian (19/06/2015). Traduzione e sintesi Alessandro Balduzzi.

Quando in aprile l’ex-presidente egiziano Mohamed Morsi fu condannato a 20 anni di carcere in seguito a un processo internazionalmente riconosciuto come incostituzionale e profondamente schierato, molti considerarono questa sentenza come un occasione che l’Occidente avrebbe dovuto cogliere per opporsi ai molti processi spettacolarizzati ormai usuali in Egitto. Per i sostenitori della democrazia e dei diritti umani il silenzio levatosi dalla comunità internazionale giunse tanto tragico quanto prevedibile. Allora il sottoscritto predisse che tale silenzio sarebbe stato interpretato dal regime di El Sisi come un nulla osta per una condanna a morte per Morsi.

Se nel 2011 i politici occidentali tessevano le lodi degli ideali e delle gesta dei rivoluzionari in Egitto, ora gli stessi assistono muti alla pena capitale inflitta al primo presidente egiziano eletto democraticamente, e per molti la sentenza è l’ennesimo chiodo che va a chiudere la bara in cui giacciono i sogni della Primavera Araba.

Questa settimana, la progressiva purga del primo governo democratico egiziano ha assunto tinte più fosche. Il regime di Sisi, forte dell’apatia dei suoi partner internazionali, ha confermato una sentenza di morte consegnata in maggio a Morsi e a più di cento persone. Secondo Amnesty International, il processo, un’autentica farsa, ha dimostrato “uno spregio totale nei confronti dei diritti umani”.

Di norma, un colpo militare seguito dalla detenzione in massa del governo precedente e dall’esecuzione pianificata del primo presidente eletto tramuterebbe uno Stato in un “intoccabile” sul palcoscenico internazionale. Ma ciò si è verificato durante una fase di disgelo nei rapporti tra il Cairo e Occidente, inclusa la riapertura di un contratto da milioni di dollari per la fornitura di armi americane.

Qualcuno, tuttavia, ha condannato la sentenza. Tra questi Federica Mogherini, che ha definito il giudizio come non rispettoso degli obblighi internazionali dell’Egitto, e gli Stati Uniti, che considerano l’esito del processo “profondamente preoccupante” (risposta vaga giustificata da quanto Washington ha corteggiato il regime di El Sisi in quest’ultimo anno).

La reticenza a opporsi a questa nuova ondata di autoritarismo si basa su una falsa premessa: l’Occidente vede in El Sisi un baluardo contro l’estremismo in una regione turbolenta costellata di gruppi di insorti e Stati pressoché falliti, mentre il presidente egiziano, da parte sua, crede che i rastrellamenti di islamisti e oppositori politici siano una prova tangibile per il mondo di come lui sia l’uomo giusto per portare la stabilità in Medio Oriente.

Una posizione simile è però un arma a doppio taglio. L’inasprimento a danno di sostenitori e ufficiali dei Fratelli Musulmani, così come nei confronti della società civile e dei mezzi d’informazione, non farà altro che isolare e radicalizzare un inquieto blocco di elettori. Dopo la rivoluzione del 2011, i giovani islamisti videro nell’impegno politico post-Mubarak uno sfogo sicuro alle proprie preoccupazioni, ma ora, con amici e parenti dietro le sbarre, il materiale per un nuovo lessico politico radicale abbonda. E creerà pericolose ideologie che poggiano su risentimento, ingiustizia e odio.

Questo schema, purtroppo, ha già trovato applicazione nella penisola del Sinai, una zona a lungo negletta che dal 2013 si è rivelata terreno fertile per il reclutamento da parte di una branca di Daesh (ISIS). Il regime ha reagito bombardando e radendo al suolo interi quartieri di Rafah, infrangendo palesemente il diritto internazionale e alimentando ulteriormente il timore che la regione diventi un focolare dell’estremismo.

Anche la crisi dei migranti nel Mediterraneo ha risentito di questa politica. Dopo la Primavera Araba centinaia di migliaia di profughi avevano trovato rifugio in Egitto, per poi essere espulsi dal regime in quanto miopemente ritenuti in combutta con i Fratelli Musulmani e quindi dirigersi verso le coste meridionali del Mediterraneo.

L’ipocrisia dell’atteggiamento occidentale affiorerà presto, con l’Unione Europea a promuovere in tutto il mondo una moratoria contro la pena di morte da una parte e la timida reazione alla condanna di Morsi dall’altra. Chi ancora sostiene i valori della rivoluzione – libertà, democrazia, uguaglianza – deve certamente essere educato, e non immediatamente abbandonato nella battaglia per un Egitto più equo da lasciare in eredità alle generazioni che verranno. Il timore di un ritorno a qualche forma di incontrollabile islamismo è puro allarmismo. Gli ideali della Primavera Araba non sono morti e milioni di egiziani vogliono ancora perseguirli con passione e in maniera pacifica. Se la comunità internazionale persevera nel trascurare questi principi, tuttavia, il risultato sarà un’ennesima polveriera mediorientale che il mondo è ben lungi dal poter sopportare.

Amr Darrag, ingegnere e politico egiziano, ha ricoperto la carica di ministro per la pianificazione e la cooperazione internazionale nel proprio Paese dal 7 maggio al 4 luglio 2013.

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