bayt. Sembra troppo bello per essere vero, ma questa parola è usata in arabo anche per chiamare il “verso poetico”. Solo nel plurale le due parole differiscono: “case” si dice “buyut”, mentre “versi poetici” diventa “abyat”. Ė come se in arabo, dicendo che “sono a casa”, pronunciassi al contempo che “sono in un verso poetico”. E cos’è un verso, se non proprio un luogo in cui prendere una dimora leggera, tanto lieve da cambiare forma a seconda di chi si appresta ad abitarla?
Al-Ma’arri (973 – 1058), poeta e pensatore siriano che ha dato un inestimabile contributo alla civiltà araba, scelse – in seguito alla scomparsa della madre – di vivere in solitudine, chiuso in casa. Una decisione che lo faceva sentire rahn al-mahbisayn, “ostaggio di due prigioni”: una era la cecità che l’aveva colpito all’età di 4 anni, l’altra era la casa in cui era rimasto da solo. In momenti simili, la lingua araba viene a parlarti, è una presenza.
Mi piace pensare che, anche solo per un attimo, questa lingua debba essersi accostata al saggio Al-Ma’arri, quasi prendendogli il viso tra le sue antiche mani di radici, e ricordandogli come sua madre avrebbe fatto: “Questa non è una prigione, ho creato una parola apposta per te: bayt. Quando la pronunci, ti ricorderà che la tua casa non può tenerti ostaggio. Perché la tua casa è nei tuoi versi…”.
Claudia Avolio
(per approfondire: Storia della Letteratura Araba Classica – Daniela Amaldi, preziosa fonte cui attingere)