Yemen: le ragioni di un fallimento

Di Essam Wassel (Al-Masdar Online – 11/07/2012). Traduzione e sintesi di Carlotta Caldonazzo

 

E’ ormai chiaro al di là di ogni ragionevole dubbio che è possibile riportare in primo piano lo slancio rivoluzionario e con gli stessi mezzi, anche dopo che il mondo ha distolto lo sguardo dalle proteste e chi le aveva guidate è stato indebolito, logorato, addomesticato. Parimenti si pone la questione di quali siano i segnali della realizzazione di tutti gli obiettivi di chi era sceso in piazza, mentre nulla lascia pensare che la situazione stia cambiando nella giusta direzione visto che si smantellano svariati settori della vita politica senza obiezioni da parte né dello Stato, né dei partiti, né della società civile. Un epilogo inevitabile alla luce dei tentativi ripetuti di arginare la rivolta popolare e giovanile.

Sono tre le fazioni che si sono maggiormente distinte in questo tipo di operazioni, sia raffreddando l’entusiasmo dei movimenti giovanili che dissuadendo questi ultimi dal compiere scelte radicali. Tutte e tre infatti da un lato temevano che il malcontento popolare avrebbe travolto anch’esse, dall’altro speravano che uno scontro opportunamente indirizzato avrebbe portato consenso e potere. Le tre fazioni in questione sono il partito islamico sunnita al-Islah, i ribelli sciiti zayditi Houthis e i resti del vecchio  regime. Al-Islah in particolare ha tentato in tutti i modi di tenere le piazze sotto la sua supervisione e ancora oggi teme il confronto con la componente sciita della società yemenita (maggioritaria in alcune province settentrionali). D’altra parte i suoi seguaci non si scontrano solo con gli Houthis ma anche con i simpatizzanti della coalizione di opposizione parlamentare Incontro condiviso, entrambi potenziali rivali nel tentativo di egemonizzare i movimenti di protesta. Contestualmente gli Houthis temono che la corrente islamica sunnita più radicale possa beneficiare del vuoto di potere successivo alla caduta di Saleh, mentre chi del vecchio regime ha conservato le poltrone teme semplicemente di perderle pur sapendo che potrà esercitare il potere solo nell’ombra. Tra queste tre fazioni la più debole risulta apparentemente quella sciita zaydita, che non costituisce un vero partito, anche perché non è mai voluta entrare nei meccanismi politici yemeniti sin dalla caduta dell’imamato mutawakkilita nel 1962. Tuttavia minor peso politico non significa meno consensi, dal momento che buona parte delle tribù del Nord dello Yemen simpatizzano per il movimento degli Houthis. o temevano che il malcontento sociale avrebbe finito per rivolgersi anche contro di esse, dall’altro speravano che uno scontro opportunamente indirizzato e disciplinato avrebbe portato consensi e vantaggi.

In questo complesso scenario non si può non menzionare l’ambigua posizione della comunità internazionale, che ha fatto della rivolta yemenita la “possibilità ineluttabile” e la ha trasformata in una crisi di cui tutti vorrebbero vedere la fine per assistere al ritorno della stabilità. L’iniziativa del Consiglio di Cooperazione del Golfo inoltre ha contribuito a liquidare le proteste convincendo l’ex presidente a dimettersi in cambio dell’immunità, ovvero della possibilità di non rendere conto di decenni di abusi e corruzione. Una mossa che ha tagliato le gambe alla rivolta dei movimenti giovanili che chiedevano democrazia ma anche giustizia e ha posto diversi ostacoli alla transizione pacifica. Lo dimostrano la mancata ristrutturazione dell’esercito (ai cui vertici siede ancora la vecchia guardia) e l’abbandono del dialogo nazionale.

In tale contesto la ragione fondamentale del fallimento della “rivoluzione yemenita” è la dispersione del movimento giovanile, effetto soprattutto della mancanza di prospettive che consentano di realizzare gli obiettivi originari. Di conseguenza il movimento di protesta ha finito per perdere in partenza e ormai chi sostiene che esso è ancora in grado di portare avanti iniziative efficaci non fa altro che dare adito ai suoi sogni. Un movimento affossato dalla stessa comunità internazionale che ha imposto la teoria della divisione dei poteri e dell’impunità in nome della riconciliazione nazionale (peraltro inesistente), trasformando le piazze che sono state teatro di proteste in vacui stereotipi. L’unica soluzione ora è compattare il fronte del movimento giovanile, che dovrà portare avanti tutti gli “spettri” rivoluzionari senza esclusione. In tal modo, forse, esso potrà raccogliersi attorno all’opposizione parlamentare (in cui confidano in molti), che conseguentemente dovrebbe percepire la propria responsabilità e promuovere la realizzazione degli obiettivi dei movimenti di protesta.

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