News Politica Zoom

Un mare di interventi

di Bernabé López García (El País 14/07/2012). Traduzione di Claudia Avolio.

 

Ė una storia mediterranea che si svolse più di un secolo fa in un mare insicuro, in cui gli affari erano a rischio perché pirati corsari – con l’appoggio di qualche reggenza nel Nord Africa – volevano accaparrarsi una parte del bottino e interferivano nel commercio per il proprio tornaconto. Forse un’altra soluzione c’era, come quella raggiunta tra Carlos III e altri governanti dell’epoca con i trattati firmati anche da Mohamed III per frenare i corsari marocchini: quei rozzi figli di Mori di Extremadura stabilitisi a Rabat-Salé. Però alcuni preferirono l’intervento militare, dando così inizio ad una occupazione coloniale che sarebbe durata in Algeria per 130 anni.

 

Si prendevano molti piccioni con una fava. Si fabbricava un patriottismo contro la barbarie che mascherava le tensioni sociali e le lotte fra bande, e si creava una Terra promessa per quell’eccesso demografico che cominciava a dare qualche problema nell’esagono. Un Eldorado alla cui ricerca andarono centinaia di migliaia di nostri levantini che da Alicante, Almería e Murcia si stabilirono a Orano e Algeri.

 

Ma non tutte le storie coloniali sono cominciate con un intervento militare e una cruenta guerra come quella che nel corso di quasi due decenni si impose innanzi alla resistenza dell’emiro Abdelkader. La colonizzazione del Mediterraneo sud è fatta anche di una storia economica tra interventi e salvataggi, e non fa male ricordarli in questi tempi di crisi che, per le bizze della Storia, sta colpendo ora in pieno i Paesi della sponda nord.

 

Pretesto, realtà, o entrambi, ci è voluta proprio “la differenza di venti secoli” tra le due sponde del Mediterraneo che osservava il viaggiatore Domingo Badía – alias Ali Bey – al suo arrivo a Tangeri nel 1803: “Qui l’osservatore tocca nel medesimo istante le due estremità della catena di civiltà”. Alcuni reggenti di ciò che non era più di qualche provincia dell’Impero Ottomano (Egitto e Tunisia), furono consapevoli di tale differenza e, che fosse per loro volontà, per pressioni di consoli europei, o per un misto delle due cose, scelsero la via di ciò che venne chiamato “le riforme”.

 

“Riforme” era un termine ampio che andava dall’eliminazione del mercato di schiavi in Tunisia alla ristrutturazione dell’esercito, con la creazione di scuole superiori di formazione militare come in Egitto. Ma “riforme” era anche un termine che si sposava con la modernizzazione, voluta o indotta, e questo implicava costi elevati. Equipaggiamenti civili e militari, aperture di nuove vie di comunicazione come il Canale di Suez, installazioni ferroviarie e di telegrafi, urbanizzazione delle principali capitali… Senza scordare le spese da capogiro di certe corti, come quella del khedivè Ismail al Cairo, che costruì un teatro dell’Opera per emulare gli europei. Tutto ciò venne finanziato grazie a una febbre dei prestiti che sopportò livelli da usura, toccando in alcuni casi il 20 percento di interesse. Una condizione che creò una spirale di indebitamento estero che sfociò nella bancarotta, anticamera del dover intervenire e, subito dopo, colonizzare.

 

In principio si ricorse al portafoglio del contribuente locale. Governanti come il Bey tunisino decisero di gravare sugli agricoltori arrivando a raddoppiare le imposte. Le conseguenze sociali furono gravi, provocando una rivolta generale nel 1864 che pose fine alle bizzarrie riformiste con le quali si era proclamata la prima Costituzione del mondo arabo (1861). Una Costituzione che, malgrado garantisse la sicurezza delle persone e dei loro beni, dava libero corso all’attività economica degli stranieri. Per questo la popolazione la vedeva come l’ennesimo fardello di ciò che pativa nella vita quotidiana. In una sorta di “Viva le catene!”, reclamarono il ritorno della tradizione e della schiavitù.

 

Il ricorso al credito estero, gestito da governanti poco scrupolosi come il primo ministro Mustafa Khaznadar, che accumularono fortune scandalose reinvestite fuori dal Paese, provocò lo sprofondamento economico della reggenza tunisina. Ciò obbligò le potenze a stabilire, nel 1869, una Commissione per il debito franco-anglo-italiana, presieduta dal padre della Costituzione del 1861, Khaireddin (“il tunisino”, anche se nato nel Caucaso). Khaireddin era un riformista che seppe portare equilibrio tra le potenze, promuovendo l’autonomia tunisina rispetto alla Sublime Porta e una ristrutturazione dello Stato che non poté però portare a termine. Questo a causa del Bey che lo licenziò nel 1877, e soprattutto per l’intervento francese che impose il protettorato alla Tunisia nel 1881, facendosi carico del debito e garantendosi il diritto di “riformare” a suo piacimento.

 

L’Egitto soffrì un processo parallelo, aggravato a partire dal 1870 per la disorganizzazione del mercato finanziario europeo come conseguenza della guerra franco-tedesca. Tale conflitto aveva infatti svalutato alcuni beni e fatto salire le condizioni dei prestiti fino al punto che buona parte del budget egiziano assorbì gli interessi del debito. La bancarotta turca del 1875, che provocò il panico nelle borse di Londra e Parigi, fece sprofondare i titoli egiziani ed il khedivè si trovò costretto a svendere le proprie azioni del Canale di Suez che caddero nelle mani degli inglesi. Furono loro a fornire il governante egiziano di un esperto in finanza che intervenisse nella malconcia economia. Questo fu il primo passo verso la Commissione internazionale del Debito, presieduta dal francese Ferdinand de Lesseps ed in cui rivestiva un ruolo preminente anche Sir Evelyn Baring – il futuro Lord Cromer. Da allora, gli europei avrebbero controllato le finanze egiziane, arrivando anche a deporre il khedivè Ismail che faceva resistenze alle loro imposizioni.

 

Più imposte, ritardi nel pagamento dei funzionari e soprattutto dei militari, portarono gli inglesi – guidati da un colonnello protonazionalista come Orabi Pacha, a inaugurare l’era dei pronunciamientos nel mondo arabo (brevi rivolte nate da accordi tra militari, ndR). Il primo di essi avvenne nel settembre del 1881 ed impose un nuovo capo di governo ed altre politiche che furono all’origine dell’intervento militare britannico nel luglio 1882. Tale intervento vide l’avvio di una occupazione prolungata, gestita col pugno di ferro da parte di Lord Cromer. Un osservatore d’eccezione di ciò che stava avvenendo nel mondo arabo fu lo scrittore cubano José Martí, il quale trovò punti in comune tra le resistenze all’intervento europeo in Nord Africa e la lotta all’autodeterminazione dei cubani.

 

Nel suo articolo “La rivolta dell’Egitto”, scritto nell’ottobre 1881 nel pieno del movimento nazionalista del colonnello Orabi – che Martí descrive come “un robusto colonnello, dotato di condizioni popolari, pieno di spirito egiziano, musulmano e indipendente” – descriverà la lotta di un Paese che “vuole riuscire ad esser proprietario di sé”. E lo farà in questi termini: “Ecco il problema: l’àncora britannica vuole arcionare i fianchi del cavallo egiziano: il Corano darà battaglia al Libro Maggiore: lo spirito del commercio cerca di affossare lo spirito d’indipendenza: il figlio generoso del deserto morde la frusta e spezza la mano del figlio egoista del Vecchio Continente”.

 

Martí enuncia quella febbre imperialista – che venne chiamata la fase superiore del capitalismo – delineandola come una “guerra mortifera contro popoli decisi ad essere liberi”. L’ambizione inglese di occupare l’Egitto (o quella francese di avere il controllo della Tunisia) sarà per lui quel “pretesto indecoroso con cui, come il boa alla colomba, da anni ci si avvinghia attorno all’Egitto; il pretesto secondo cui alcuni ambiziosi che sanno il latino avrebbero diritto naturale di rubarne la terra ad alcuni africani che parlano arabo; il pretesto per il quale la “civiltà” – nome volgare dello Stato attuale dell’uomo europeo – avrebbe diritto naturale di fare uso della terra altrui che appartiene ai “barbari” – nome dato da chi desidera la terra altrui allo Stato attuale di tutti gli uomini che non siano europei o dell’America europea. Come se testa per testa e cuore per cuore, valesse più uno sterminatore di irlandesi o uno che prende a cannonate i cipayos (soldati indigeni che si rivoltarono all’esercito britannico in India, di cui facevano parte, ndR), che non uno di quei prudenti, amorevoli e disinteressati arabi, i quali senza temere la sconfitta o farsi intimidire dai numeri, difendono la terra della loro patria, con la speranza vòlta a Dio, una lancia in ogni mano e una pistola tra i denti”.

 

Poco più di un secolo dopo, con altri “pretesti indecorosi”, e coi “mercati” al posto delle “civiltà”, in questo Mediterraneo torna a ripetersi qualcosa di familiare.