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Turchia: quando le elezioni sono una ‘conquista’

Erdogan Turchia

Di Mustafa Akyol. Hürriyet Daily News (03/06/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.

È tempo di elezioni in Turchia, ma soprattutto sono le ultime battute della campagna elettorale e ciascuna formazione lancia l’ultima chiamata ai suoi valori più profondi. Così, sabato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha partecipato alle celebrazioni del 562° anniversario della conquista turca di Istanbul, imperniando ancora una volta il suo discorso sui cospiratori e i traditori che mettono a rischio la stabilità del Paese. Una delle trame rievocate è stata quella del quotidiano statunitense The New York Times, prontamente ricollegata alla memoria storica accusando la testata in questione di ostilità verso la Turchia dai tempi del sultano Abdülhamid II (1876-1909). Ma ancor più degno di nota è il collegamento istituito da Erdoğan tra le celebrazioni e la conquista rappresentata dalle elezioni parlamentari. “La conquista”, secondo lui, “sarà se Dio vuole il 7 giugno”.

Un paragone piuttosto ardito, che cova in sé conseguenze che rischiano di mettere in discussione sia il percorso democratico della Turchia, che gli stessi principi repubblicani sui quali si fonda dai tempi di Mustafa Kemal Atatürk. Una di queste è l’identificazione pericolosa di qualsiasi altra forza politica che non sia il Partito Giustizia e Sviluppo (AKP, al governo) con il nemico da sconfiggere e sottomettere. Identificazione che colpisce soprattutto in quanto istituita da una figura, quella del presidente della Repubblica, che secondo la Costituzione dovrebbe essere imparziale. La prospettiva agonistica che Erdoğan ha sulle prossime elezioni di certo non produrrà serenità né relazioni politiche costruttive. Peraltro è nel 2002 che l’AKP ha conquistato la Turchia (che da allora governa ininterrottamente) e la maggior parte dei municipi, inclusi i due principali di Ankara e Istanbul.

In cosa consiste dunque la nuova conquista di cui parla il presidente? Forse qualcosa di “più” del governo di una democrazia parlamentare. Erdoğan infatti punta ai due terzi dei parlamentari a favore per instaurare l’ordinamento presidenzialista. Ambizione personale, ma anche una sorta di missione storica di cui sente investito non solo se stesso ma anche il suo partito in quanto partito islamico contro ipotetici “infedeli”. Il che spiegherebbe inoltre la deriva autoritaria e conservatrice (dal punto di vista del rapporto tra i generi, ad esempio) che caratterizza il suo mandato presidenziale. Si insinua contestualmente la pericolosa convinzione che alcuni siano “più musulmani” di altri, ovvero che interpretino in modo autentico i dettami dell’islam. In effetti negli ultimi due anni, chi si è sentito il “vero musulmano” in opposizione ai “falsi musulmani” si è trovato perfettamente a suo agio nella propaganda dell’AKP. Naturalmente gli “ipocriti” nella fattispecie sono i partiti di opposizione.

Una simile propaganda di militanza religiosa provoca, ovviamente, profonde lacerazioni all’interno della società, nonché un deterioramento sensibile delle relazioni interpersonali. Come se non bastasse, essa danneggia anche l’essenza della religiosità, che finisce per essere ridotta a strumento del conflitto (non si può in simili frangenti parlare di dialogo) politico. Alla fine dunque la “conquista” di cui Erdoğan ha parlato sabato scorso potrebbe portare a risultati opposti da quelli da lui auspicati. Una società disillusa, infuriata con la religione per le nefandezze che si compiono in suo nome, simile per certi aspetti a quella che caratterizza l’Europa cristiana, in particolare la Francia. L’era del post-AKP potrebbe dunque essere anche il tempo della riscossa del secolarismo.

Mustafa Akyol è redattore e opinionista del quotidiano turco in lingua inglese Hürriyet Daily News.

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