Di Murat Yetkin. Hürriyet Daily News (26/06/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.
Alla luce degli ultimi sviluppi della geopolitica, è sempre più delicata la posizione della Turchia e del suo primo ministro Ahmet Davutoğlu, che la prossima settimana riceverà dal presidente Recep Tayyip Erdoğan il mandato per formare un nuovo governo. A pesare sulle scelte del governo turco, guidato dal partito islamico Giustizia e Sviluppo (AKP), è infatti la guerra tra combattenti curdi e cartelli del jihad di Daesh (ISIS) in Iraq e soprattutto in Siria.
Di recente, la Turchia è stata accusata da gruppi di curdi siriani legati alle Unità di Protezione Popolare (YPG) di aver permesso a infiltrati di Daesh di attraversare il confine in direzione di Kobane, rendendosi in tal modo responsabile del massacro ancora in atto. Accuse di poco successive alla polemica innescata dal vice primo ministro turco Bülent Arınç su presunti tentativi di “pulizia etnica” da parte sia dei cartelli del jihad che dei combattenti curdi delle YPG. Intanto, simili tensioni si riflettono, assieme a quelle interne, sulla scelta che l’AKP dovrà compiere per formare una coalizione di governo e sul futuro dei colloqui con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).
Recentemente, le pressioni della NATO sulla Turchia sono notevolmente aumentate, non solo per un maggior impegno nella guerra contro Daesh, ma anche per un ruolo chiave nelle questioni regionali, Balcani in primis, come ha detto ieri il vice segretario generale NATO Jamie Shea. Quanto al primo punto, tuttavia, la situazione richiede cautela, visto che, mentre alcuni rapporti dell’intelligence di Ankara (MİT) rivelano infiltrazioni di miliziani e simpatizzanti dei cartelli del jihad, altri informano della presenza di agenti dei servizi di sicurezza siriani in territorio turco, in entrambi i casi grazie alla permeabilità dei confini.
Dunque, sia i primi che i secondi, disseminati nei centri urbani, potrebbero far scattare ritorsioni nel caso in cui la Turchia dovesse decidere di partecipare ai bombardamenti della coalizione internazionale contro postazioni Daesh oppure concedere l’uso della base militare di İncirlik. Un contesto che pone Ankara in posizione più di difesa che di attacco, come dimostra la convocazione, la scorsa settimana, del capo del Partito di Unione Democratica (PYD) Salih Muslim ad Ankara, per informarlo formalmente che il governo turco non tollererà neppure la minima avvisaglia di creazione di un “corridoio curdo” tra Iraq, Siria e Turchia.
In cambio di un ruolo più attivo contro i cartelli del jihad, Erdoğan e Davutoğlu hanno chiesto agli alleati della NATO la defenestrazione del presidente siriano Bashar al-Assad e un sostegno nello scontro con il PKK e il partito curdo siriano suo alleato, il PYD, in Siria e Iraq. Intanto, dall’inizio della campagna elettorale per le ultime elezioni parlamentari, l’AKP ha sospeso i colloqui di pace con il PKK, avviati da Erdoğan nel 2012 e finora condotti da Ankara per mezzo del MİT, rinviando la decisione sul se e come portarli avanti.
Ambiguità che lascia all’AKP la porta aperta a una coalizione di governo sia con il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), da sempre contrario al dialogo con il PKK, che con il Partito Repubblicano del Popolo (CHP), che sostiene la necessità di avviare trattative trasparenti e varare una costituzione più democratica. Inoltre, il governo turco, per bocca di Bülent Arınç, ha riferito di aver adottato “misure” per garantire la sicurezza interna e regionale, non necessariamente in accordo con le priorità della coalizione internazionale anti-Daesh. Soprattutto in riferimento all’alleanza di quest’ultima con il PYD, che, secondo Ankara, pratica la “pulizia etnica” nelle zone conquistate, alla stregua dei cartelli del jihad.
Murat Yetkin è opinionista di Hürriyet Daily News.
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