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Tunisia ed Egitto: Anno 2 della rivoluzione

Zouhir Louassini. Afkar-Ideas 37 – Aprile 2013. Versione francese dell’articolo. Versione spagnola

Piazza-Tahrir-durante-la-rivoluzione-in-Egitto-foto-ilparlamentare_itSono bastati pochi mesi a gran parte della stampa occidentale per commutare l’entusiasmo per le rivoluzioni nel mondo arabo in un pessimismo sul futuro di tutta un’area che vive da decenni una delle tappe più difficili della sua storia. Molti giornali hanno intitolato a nove colonne “inverno islamico” quello che fino a poco tempo prima definivano “la primavera araba”. Le elezioni in Tunisia e in Egitto, che hanno portato l’islam politico al potere, hanno “confermato” le paure di chi diffidava fin dall’inizio di questi cambiamenti che hanno mandato via il fior fiore degli alleati dell’Occidente, come Zineddine Benali e Mubarak. Articoli che sottolineano il clamoroso fallimento della “rivoluzione araba” non mancano nei giornali più prestigiosi di Europa e Stati Uniti. Per molti non c’è più dubbio: gli arabi non sono pronti per una vera democrazia.

Osman Mirghani, in un editoriale pubblicato su al-Sharq al-Awsat, ribadisce il fatto che la primavera araba ha generato fino adesso più domande che risposte. La speranza iniziale sta lasciando spazio nei paesi arabi all’angoscia e alla paura. Questa è la realtà senza ritocchi, dice nel suo articolo del 13-02-2013, una triste realtà che ha spinto molti a condannare i cambiamenti e a considerarli un fallimento totale, mentre altri non nascondono più la loro nostalgia per l”ancien régime”.

Sulla rete gira da un po’ di tempo una pagina facebook intitolata “Ana assef ya rayyes” (mi dispiace signor presidente) in onore dell’ex rais Hosni Mubarak che ha incrementato in poco tempo il numero di “mi piace”: quasi un milione di persone non nascondono più che prima era meglio.

L’uccisione a colpi di pistola da parte di ignoti del leader dell’opposizione Choukri Belaid, ha trascinato la Tunisia verso un nuovo incubo che poteva far esplodere tutto il sistema post-primavera, sistema che sembrava reggere meglio nel paese maghrebino che in Egitto per esempio. A due anni dal terremoto della “primavera” la scossa non riesce ad assestarsi. Questi sono i fatti e così bisogna vederli. Una domanda però in questo caso è d’obbligo: sono sufficienti due anni per trarre conclusioni?

L’ex segretario di stato americano Hillary Clinton, pochi giorni prima di lasciare l’incarico, aveva messo il dito sulla piaga argomentando su come “la primavera araba” avesse portato molti incompetenti al potere. Più che di “incompetenti” si può parlare di mancanza d’esperienza. I cambiamenti nel mondo arabo hanno fatto arrivare ai vertici del potere una nuova classe politica che è stata, per anni, dedicata esclusivamente all’opposizione.

In paesi dove le garanzie democratiche erano assenti, molti leader finivano in galera o in esilio. La situazione attuale esprime così il fallimento totale dei regimi caduti prima di essere lo specchio dell’incapacità del potere esistente di avviare una transizione politica di successo. I due anni di “primavera” hanno messo in evidenza il deficit democratico di cui soffrono i gruppi politici che confondono i risultati delle urne con la democrazia, la legittimità del voto con la forza del consenso. Elementi che spiegano la sofferenza di chi guarda con timore la situazione attuale ma che non possono, in nessun modo, giustificare i toni nostalgici di chi difende il ritorno al passato. Il processo democratico ha preso il via e non ci sono più motivi per tornare indietro.

È vero che “la primavera araba”, come dice Mirghani nel suo articolo, ha portato più domande che risposte, ma è vero anche che qualche risposta c’è e può essere una base per costruire una visione più ottimista e obbiettiva.

Il noto umorista egiziano Bassem Youssef,  in una puntata del suo programma “al-Barnamaj”, gioca facendo scorrere alcune immagini di popolose manifestazioni al Cairo, la prova, dice, della forza dei fratelli musulmani. Ma sotto suggerimento della regia deve correggersi: no, non erano i fratelli ma l’opposizione laica! La difficile situazione egiziana ormai non può nascondere il gran dibattito interno che, con tutti i limiti d’una democrazia fragile, si svolge con molta libertà. Il dopo Mubarak ha confermato la forza organizzativa dei fratelli musulmani ma ha dato anche luce ad una reazione della società civile degna d’ammirazione.

L’islam politico in Egitto non ha altra scelta che quella di cambiare linguaggio se vuole uscire dal tunnel in cui ha messo il paese. Tutte le manovre di Morsi fino adesso stanno dando pochi risultati perché ha cercato di governare prendendo in considerazione solo una parte della società. La perdita di popolarità dei “fratelli” mette in evidenza il fallimento di un movimento che ha sbagliato tutte le mosse nel suo appuntamento con la storia. Il modo con cui Morsi sta gestendo la transizione sintetizza tutta la sua mancanza di esperienza e di visione politica. In poco tempo i fratelli sono riusciti a sprecare un’occasione unica per portare il paese verso la democrazia. Probabilmente per l’ambiguità del concetto nella loro interpretazione ideologica: immaginare che vincere le elezioni sia sufficiente per pretendere l’obbedienza totale di quasi 90 milioni di egiziani rispecchia solo la scarsa lucidità di chi confonde preferenze democratiche con investiture divine. La vittoria di Morsi alle elezioni ha spinto i fratelli musulmani, sicuramente in un momento di “ubriachezza totale”, a redigere la costituzione come se si trattasse del manifesto del partito.

La Tunisia invece ci ha offerto un altro modo di gestire il potere da parte degli islamisti, un po’ più pragmatico e meno ideologico. Annahda, il partito che appartiene all’islam politico nella sua versione moderata, governa in alleanza con partiti laici. I suoi leader hanno dimostrato fino adesso molta flessibilità e qualche volta anche un alto senso dello stato.

La proposta del capo del governo e segretario generale di Annahda, Hammadi Jebali, di formare un governo tecnico, contro il desiderio del proprio partito e subito dopo l’uccisione di Belaid, è stata una mossa che ha aiutato ad alleviare  la tensione nel paese. Le dimissioni di Jebali dopo il fallimento nel suo intento di formare il governo si può considerare in sé un gran segno di cambiamento, una vera novità nella storia politica tunisina e araba.

Questa particolarità ha spinto molti osservatori a guardare la situazione tunisina con più ottimismo. In un’intervista pubblicata in Reset il 28 febbraio 2013, il ricercatore e attivista per i diritti umani, Slaheddine Jourchi, si dichiarò convinto che la Tunisia “ha ancora reali possibilità di edificare uno Stato emancipato e civile”. Finora, la gestione dello Stato nel suo insieme è stata abbastanza incoraggiante malgrado la divisione che domina l’elite politica e il preoccupante fenomeno, nuovo nella società tunisina, della violenza. Tutto questo, afferma Jourchi, non può nascondere che “c’è una presa di coscienza collettiva sulla necessità di ricorrere alle urne e di condannare l’uso della violenza come strumento di cambiamento”.

Così l’anno due delle rivoluzioni arabe ci mette davanti a due realtà diverse. La Tunisia e l’Egitto sono stati i primi a cambiare il regime. Le dinamiche sono state molto simili. Manifestazioni pacifiche hanno prodotto una trasformazione di cui bisogna aspettare gli sviluppi prima di trarre conclusioni.  Fino adesso possiamo solo dire che la Tunisia dà l’impressione di resistere meglio ai cambiamenti che il paese ha sperimentato. L’Egitto invece rimane un’incognita anche se le istituzioni hanno mostrato grande resistenza e solidità nonostante la quantità di errori commessi dal governo Morsi.

L’Egitto è il paese più importante demograficamente. La sua posizione geografica e la sua leadership nell’area dà più valore a un’esperienza che può illuminare la strada a tutto il mondo arabo. I fratelli musulmani nel paese nord africano hanno ispirato tutti i movimenti appartenenti all’islam politico, inclusi quelli violenti. Il successo della transizione democratica egiziana è vitale per avviare il cambiamento verso il mondo moderno in una zona di conflitti e sottosviluppo. Questa via passa per una scelta coraggiosa e urgente: abbandonare la convinzione ideologica di poter adattare la modernità alle regole dell’islam e lasciare che l’islam si adatti alla modernità. Probabilmente questo sarà l’inizio della vera rivoluzione di cui il mondo arabo ha bisogno.

 

About the author

Zouhir Louassini

Zouhir Louassini. Giornalista Rai e editorialista L'Osservatore Romano. Dottore di ricerca in Studi Semitici (Università di Granada, Spagna). Visiting professor in varie università italiane e straniere. Ha collaborato con diversi quotidiani arabi tra cui al-Hayat, Lakome e al-Alam. Ha pubblicato vari articoli sul mondo arabo in giornali e riviste spagnole (El Pais, Ideas-Afkar). Ha pubblicato Qatl al-Arabi (Uccidere l’arabo) e Fi Ahdhan Condoleezza wa bidun khassaer fi al Arwah ("En brazos de Condoleezza pero sin bajas"), entrambi scritti in arabo e tradotti in spagnolo.

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