“Quando entri alla Renault, guardano come ti chiami. Se ti chiami Mohamed, ti mandano in catena di montaggio. Mohamed o Khémaȉs, eh, è la stessa cosa”.
È questo l’incipit con il quale si apre l’originale graphic-novel del francese Jérôme Ruillier pubblicato in Italia da Edizioni Il Sirente. Ruillier ci consegna la rappresentazione – anche grafica – della situazione degli immigrati maghrebini in Francia, a partire dagli anni ’50 ad oggi, attraverso le testimonianze di numerosi personaggi.
Il racconto si articola secondo i punti di vista dei padri, delle madri e dei figli. Ognuno con il proprio vissuto, diverso e complementare, nel raffigurare la drammatica situazione in cui si sono ritrovati a vivere dopo l’arrivo in Franca, terra promessa che ha elargito enormi delusioni e sofferenze.
E così i padri raccontano il loro arrivo nelle fabbriche o nelle miniere, i lavori terrificanti al limite della schiavitù, la convivenza con altri uomini nelle baracche sul limitare degli stabilimenti, la mancanza delle famiglie lasciate in Algeria.
Con il passare degli anni molti di loro sono riusciti a portare in Francia anche mogli e figli, generando in essi grandi aspettative, prontamente deluse una volta arrivati in Europa. E così il rimpianto del villaggio e della casa lasciata in Algeria a volte si fa così forte da non concedere la forza di resistere.
Ma molti invece resistono, con determinazione cercano l’integrazione che passa necessariamente attraverso lo studio della lingua, quell’idioma che permette di intrecciare relazioni sociali e acquisire quindi una visibilità nel contesto sociale in cui si vive.
Le madri raccontano, dal canto loro, una Francia fredda e distaccata, nella quale arrivano solo per continuare la loro vita di mogli-schiave, cucinare, lavare, rammendare senza mai uscire di casa. La spesa la fanno i figli ai quali è permesso uscire. Ma c’è anche chi, come Djamila, disubbidisce a queste regole e, liberatasi del velo, esce alla scoperta di questo nuovo paese, acquisendo di giorno in giorno fiducia in se stessa e negli altri:
“La notte successiva mi sono detta che sarei andata ancora più lontano, fino a Parigi. Il giorno dopo ho raccolto i capelli in una treccia, ho girato l’angolo della via del garage, ho camminato tanto e sono arrivata al metrò”.
E poi ci sono i racconti dei figli, dei cosiddetti immigrati di seconda generazione che in Francia ci sono nati, pur vivendo ai margini della sua società, in quelle banlieux tanto degradate e pericolose di cui troppo poco si parla, se non quando bruciano. Quei figli che con coraggio e determinazione vanno avanti negli studi e conquistano lavori importanti, oppure quelli che invece percorrono le strade della criminalità perché sono quelle più facili e più a portata di mano.
L’opera di Ruillier è un invito a riflettere, da occidentali, sulle sorti di milioni di immigrati che per disperazione lasciano i loro paesi, intraprendono viaggi pericolosi per approdare in un mondo che spesso li guarda con sospetto e con diffidenza. È un invito a condividere le loro sofferenze, a comprendere le motivazioni delle loro situazioni personali ed etniche. Solo in questo modo si potrà davvero raggiungere quella integrazione che oggi è solo sulla carta. E ad avvalorare questa teoria contribuisce anche la rappresentazione grafica scelta dall’autore che raffigura i suoi personaggi come delle creature antropomorfe, con corpo umano e testa di animale, quasi a significare l’indistinguibilità dei tanti Mohamed che popolano le strade di questa Europa.
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