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Sulla protesta del velo in Iran

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Il movimento contro il velo delle donne iraniane acquista un significato politico oltre che religioso e si accompagna alla contestazione popolare contro il forte apparato istituzionale.

Opinione di Al-Quds. Al-Quds Al-Arabi (05/02/2018). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio.

Secondo un rapporto reso noto dall’ufficio presidenziale in Iran, la maggior parte degli iraniani crede che sia la donna, e non lo Stato, a dover decidere se indossare il velo o no. Questo comunicato è stato definito come una vittoria per il movimento di protesta contro il velo lanciato dalle donne iraniane a Teheran e in altre città del Paese.

Lo scorso mercoledì, il presidente Hassan Rouhani aveva messo in guardia i leader iraniani del pericolo di condividere il destino dell’ultimo shah qualora avessero ignorato le richieste e i desideri del popolo e invitava questi ultimi all’ascolto.

Emerge dunque una consapevolezza da parte dell’istituzione presidenziale circa gli sviluppi politici e sociali interni sfociati nelle manifestazioni di piazza sotto forme diverse, tra cui le proteste contro le politiche economiche del governo e il relativo aumento dei prezzi e deterioramento delle condizioni di vita. Le manifestazioni hanno avuto come obiettivo anche personalità e simboli politici e religiosi, un modo per attaccare quel legame presente tra religione e politica all’interno dell’apparato statale. In un simile scenario la protesta del velo acquista un significato specifico, politico oltre che religioso.

Il movimento del velo infatti cerca di contrastare l’idea di costrizione imposta dallo stato e dal suo apparato che crede che sia la legge a decidere come vestire la donna. Questo ci ricorda un movimento simile ma opposto sorto nello stesso Iran durante l’era di Reza Shah. Nel 1936 veniva introdotto il bando di vestiti tradizionali per maschi e femmine e dell’utilizzo del velo, considerato una minaccia alla libertà e alla dignità della donna nonché una provocazione e un crimine contro l’Islam. La decisione era arrivata in seguito ad un viaggio di Reza Shah in Turchia. Influenzato dal rapido progresso in termini di libertà della donna, decise di guidare il Paese nella stessa direzione. Con la promulgazione del kashaf al-hijab (divieto del velo), Reza Shah bandì con forza l’utilizzo dello chador in pubblico.

Il confronto storico evidenzia l’enorme paradosso in cui si trova uno stato costretto a confrontarsi con l’ideale di progresso. In entrambi i casi – con lo svelamento promosso da Reza Shah e l’imposizione del velo sotto la Repubblica Islamica – viene ignorata la volontà della donna di decidere se indossare o togliere il velo. Questa negazione non si limita solo all’abbigliamento o al costume ma si estende anche a questioni economiche, sociali e politiche. Inoltre, lo stesso confronto dimostra che quanto promosso dalla Repubblica Islamica non è stato altro che un rovesciamento delle politiche dello shah e questo ci fa capire l’avvertimento di Rouhani e il gesto compiuto dalla ragazza di via Enghelab (o via della Rivoluzione in persiano) di togliersi il velo in segno di protesta.

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