Di India Stoughton. The Daily Star Lebanon (29/11/2013). Traduzione e sintesi di Claudia Avolio.
La fotografia è uno strumento preso sempre più in considerazione dagli enti benefici per la sua capacità di suscitare consapevolezza nell’osservatore della condizione vissuta dai rifugiati siriani.
L’Agenzia dell’ONU per i Rifugiati (UNHCR) ha affidato tale compito ad Elena Dorfman, che ha dato vita a due serie di foto. Tra il Libano, il campo giordano di Zaatari e quello di Dormiz nel Kurdistan iracheno, i suoi scatti hanno catturato momenti della vita dei rifugiati siriani ripresi nella loro quotidianità. Una serie riprende proprio i quartieri in cui i rifugiati devono reinventarsi una casa, mentre l’altra si concentra sui più giovani e ha infatti il significativo titolo di “Syria’s Lost Generation”.
Un altro recente esempio di attivismo fotografico è quello promosso dal Consiglio Danese per i Rifugiati (DRC), che ha commissionato alla fotografa franco-marocchina Leila Alaoui una serie di scatti in Libano. Ne è nata la mostra beirutina dal titolo “Natreen” (Noi aspettiamo), che ha visto la collaborazione di Alaoui con Imad Aoun, a capo del settore comunicazione del DRC.
“Molte delle loro storie sono celate dietro statistiche e numeri,” dice al riguardo Aoun, “Mentre noi abbiamo pensato di mettere in luce il lato umano”. I rifugiati con cui le due sono entrate in contatto hanno dato ad Aoun il senso esatto di cosa significhi vivere in sospeso. “Vogliono tornare a casa, ma stanno aspettando: al momento è questo che plasma le loro vite, si trovano come in un limbo,” spiega, e aggiunge: “Tenendo a mente il titolo della mostra – “Noi aspettiamo” – mentre si guardano le foto, ci si rende conto che in ognuna di queste persone c’è una componente d’attesa”.
Ciò che stava a cuore alla fotografa Leila Alaoui era, come dice lei stessa, di “non mostrare le vulnerabilità né la miseria: quando qualcuno ti guarda, tu vedi un essere umano, potente, bellissimo. Io non aspiro affatto a un approccio accondiscendente”. Del resto anche il lavoro di Elena Dorfman si è sviluppato seguendo “un profondo rispetto ed interesse nei protagonisti e negli spazi che abitano, sia fisicamente che emotivamente”. E anche Dorfman ha notato come, tra i ragazzi fotografati nei campi, “ognuno di loro voleva tornare in territorio siriano, rientrare a scuola”.
Citando le parole di Hani, ragazzo di Homs da lei immortalato, la fotografa ricorda di quando le ha detto: “Mi manca bere caffè con gli uccelli, mi manca vedere i sorrisi di mio fratello al mattino”. Entrambe le fotografe sono riuscite a documentare con successo un’estetica dalla risonanza emotiva notevole. Mentre la guerra va avanti e si viene subissati da storie di stenti, gli sforzi delle ONG di ricorrere alla fotografia artistica sembrano dare conferma del vecchio adagio che recita: un’immagine vale davvero più di mille parole.