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Status pena di morte: mantenitori

Articolo di Silvia Di Cesare

Quarantasette persone sono state decapitate lo scorso 2 gennaio in Arabia Saudita con l’accusa di aver progettato o eseguito attacchi terroristici contro i civili. Tra i 47 condannati vi era anche l’Imam sciita Nimr al-Nimr, religioso saudita che aveva appoggiato le manifestazioni anti-governative scoppiate nel 2011 e nel 2012 nella regione orientale di Qatif dove abita la maggior parte della popolazione sciita del regno.

L’uccisione di Al-Nimr ha scatenato un’ondata di proteste in tutto il Medio Oriente e soprattuto nella Repubblica Islamica iraniana, stato a maggioranza sciita. Dopo le dichiarazioni di ostilità verso il regno saudita  e l’assalto alla sua ambasciata a Teheran, sono iniziate le prime reazioni del regno sunnita e dei suoi alleati: dall’espulsione degli ambasciatori iraniani dal Bahrein e dal Sudan e dal regno saudita, al blocco del traffico aereo dall’Arabia Saudita all’Iran.

death_penalty_blog_0Divisi dalla geopolitica, dalla religione e dall’economia, c’è però un aspetto della vita politica e sociale che lega i due Paesi mediorientali: la pena di morte.

“Stato pena di morte: mantenitori” così il sito di Amnesty International classifica le due superpotenze, e i numeri sono sempre in aumento.

Le esecuzioni dello scorso 2 Gennaio in Arabia Saudita si aggiungono, infatti, alle 158 effettuate nell’anno 2015, numeri che rappresentano un record ventennale per il regno e che lo avvicinano all’acerrimo nemico iraniano: 694, secondo le Nazioni Unite, sono le condanne a morte eseguite dall’Iran nel 2015.

Nel regno saudita, la pena di morte è prevista per terrorismo, rapina a mano armata, stupro, reati di droga, adulterio, apostasia e stregoneria. In Iran il 69 per cento dei condannati a morte sono accusati di crimini per droga, ma la pena capitale viene applicata anche per altri reati:  dalle minacce alla “sicurezza dello stato” all'”ostilità verso Dio”, conosciuto anche come moharebeh, fino ad arrivare agli “insulti contro la memoria dell’Imam Khomeini e contro il leader supremo della Repubblica Islamica”. L’accusa di moharebeh viene comunemente usata “contro i dissidenti politici e i giornalisti, accusati di lottare contro i precetti dell’Islam e contro lo Stato che sostiene quei precetti”, come si legge in un rapporto delle Nazioni Unite.

Nonostante i numeri e l’arrivo alla condanna attraverso processi iniqui, né l’Arabia Saudita né l’Iran sono stati condannati con forza dalla comunità internazionale.

Solo nell’ultimo anno gli Stati Uniti hanno delicatamente ripreso il prezioso alleato saudita per l’alto numero di esecuzioni capitali effettuate. L’Inghilterra, invece, non ha inserito il Regno nelle venti pagine di un documento del ministero degli Esteri per la riduzione dell’uso delle esecuzioni in tutto il mondo.

Per quanto concerne l’Iran, la Repubblica Islamica per anni ripresa per i suoi programmi nucleari non è quasi mai stata sotto i riflettori per l’altissimo numero di persone condannate a morte. 

La geopolitica versus i diritti umani, la strumentalizzazione della morte di Al-Nimr rende chiaro cosa è che muove il mondo.