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S-L-B, una volta derubati varcheremo lo zero

"Gaza" - Ahmad Salma
"Gaza" - Ahmad Salma
“Gaza” – Ahmad Salma

Per la prima volta sento il bisogno di trascrivere tutti i verbi che ho trovato nello Zanichelli di Eros Baldissera, alla voce salaba. Rubare, rapinare, rapire, derubare, saccheggiare, sottrarre, spogliare: è come se elencarli tutti desse vita a una lunga lista di nomi, luoghi, date di nascita e di morte, di chi le azioni legate a questa radice le ha subìte, o le sta subendo. Vedersi derubati è sentirsi spostare al di qua dello zero, aggiungere un segno meno al proprio valore. Esistere in negativo.

Ma il negativo è l’impronta necessaria per sviluppare un’immagine, la matrice che consente di moltiplicarla. L’atteggiamento negativo in arabo, salbiyya, è anche il negativo di una fotografia. Una forte possibilità di riscatto risiede per me in questa radice araba che sembra spingerci, una volta derubati, a colmare la distanza frapposta tra ciò che eravamo e quel che qualcuno, togliendoci qualcosa, aspirava a renderci.

Quante volte, per farmi coraggio, mi è riaffiorata alla mente l’immagine che Jean Genet descrive in Diario del ladro: “Quando, coi piedi nudi in un paio di sandali, attraverso di notte i campi di neve alla frontiera austriaca, non cederò, ma allora, mi dico, bisogna che quel mio doloroso istante concorra alla bellezza della mia vita, quell’istante e tutti gli altri mi rifiuto che siano dei cascami, utilizzando la sofferenza che mi procurano mi proietto nel cielo dello spirito.” Vederla incastrare tra i meccanismi della lingua araba me l’ha resa ancora più cara e significativa.

Poi è arrivata Nadia e la visita di suo zio. In Lettera da Gaza di Ghassan Kanafani, il protagonista capisce di dover restare quando, mentendo alla nipote Nadia in ospedale, le dice di averle portato in dono dei jeans dal Kuwait, che lei desiderava molto. Ma pochi istanti dopo, un gesto della bambina gli rivela che in un bombardamento, per difendere gli altri piccoli, Nadia ha perso una gamba, e quei jeans immaginati non potrebbe mai indossarli. Quando vive questo momento, la perdita subìta dalla sua nipotina, ciò che le è stato barbaramente negato, lo rende d’un tratto lucido come non era mai stato:

“Il sole rovente riempiva le strade col colore del sangue. E Gaza era nuova, Mustafa! Io e te non l’abbiamo mai vista così. Le pietre accatastate all’inizio del quartiere Shajiya dove vivevamo avevano un significato, e sembrava che fossero state messe lì proprio per spiegarcelo. (…) Tutto in questa Gaza pulsava di una tristezza non confinata al pianto. Era una sfida: e più di questo, era come reclamare la gamba amputata!”

In una sola radice, avverto che la lingua araba riesce a tracciare due possibili circuiti per chi viene derubato: può rischiare di diventare maslūb (pazzo, alienato), oppure può sviluppare una serie di asālīb (metodi, tecniche, stili). Creare un nuovo sistema di riferimento, per oltrepassare la soglia del salb, il saccheggio, la negazione. Per superare lo zero e giungere al di là di questo.

“Ma ascolta. / Ti ringrazio perché mi hai tolto tutto / tutto quello che dominavo in vita mia. / Perché un prodotto del lavoro sempre / – se costruito saldo – / è nutrimento del ladro e prototipo / del Paradiso o, piuttosto, preda del Tempo. / Perdendo (anche per sempre) qualche cosa / di speranza tradita / non si osa gridare: all’improvviso / i tratti, prima impercettibili, del Tempo / negli oggetti trapelano.” A scriverlo era, nel 1970, Josif Brodskij. Oggi, sento che a leggerlo sono gli occhi di ogni verbo espresso da questa radice. A guardia semantica di ciò che Mario Luzi definiva “quel che non ho e che pure dovrò perdere”.

 Claudia Avolio