Di Khalid al-Dakhil. Middle East Monitor (20/11/2016). Traduzione e sintesi di Claudia Negrini.
Nel mondo arabo è comune dire che la Primavera Araba è stata una cospirazione occidentale, americana, per dare potere all’Islam politico nella regione. Sembrerebbe che la stessa infezione, però, abbia raggiunto anche la Gran Bretagna, che è uscita dall’Unione Europea e, adesso, anche gli Stati Uniti, con l’elezione di un presidente non convenzionale, lontano dalla tradizione politica delle istituzioni di governo.
Washington ha forse cospirato contro sé stessa, allora? Non ci sono dubbi che le ultime elezioni americane, sia presidenziali che parlamentari, sono state eccezionali e senza precedenti nella storia d’America. Questo per molte ragioni, compreso il fatto che non erano come le solite elezioni dove si sceglieva un candidato in base al proprio partito di appartenenza, come si è sempre fatto. Al contrario, questa è stata una rivoluzione contro l’istituzione dei partiti, in particolare contro quello repubblicano e quello democratico. Considerando che questi due partiti, insieme, rappresentano le due forze politiche più grandi delle istituzioni di governo, diventa chiaro che queste elezioni, a partire dal primo giorno, non erano altro che una rivoluzione sociale contro queste stesse istituzioni.
Ciò richiede una ridefinizione del termine “rivoluzione”. Non è sempre un’azione violenta che impone un cambiamento strutturale nella società e nel Paese. Può essere anche un’azione politica pacifica, se le istituzioni e le procedure costituzionali lo permettono e ne garantiscono la protezione. Questo è esattamente quello che è accaduto negli Stati Uniti negli anni e in modo particolare in queste due settimane.
La classe operaia è stata la vera fautrice di questa rivoluzione. Ha, infatti, imposto il cambiamento sulla selezione dei candidati delle elezioni. Questo è stato particolarmente evidente nella prima fase, durante le primarie. Tutti pensavano che Trump sarebbe stato sconfitto per il suo razzismo e la natura superficiale dei suoi discorsi, invece ha sbaragliato gli altri 16 candidati ed è stato riconosciuto dalla Conferenza Generale del partito repubblicano, nonostante l’opposizione di molti leader di partito.
Poi c’è stato il fattore politico: la destra di Trump ha vinto con i voti da questa classe operaia, la stessa che avrebbe dovuto sostenere la sinistra di Sanders. Il motivo è chiaro. Il partito democratico ha scelto Hillary Clinton e non Sanders come suo rappresentante nelle presidenziali contro Trump. Visto che la Clinton è un simbolo delle istituzioni di governo, mentre Trump rappresenta una ribellione contro queste istituzioni, le elezioni le ha vinte lui. In questo c’è senz’altro dell’ironia, visto che Trump non rappresenta certo la classe operaia. Ciò fa capire quanto questa rivoluzione volesse un cambiamento a tutti i costi.
La rivoluzione americana è simile alla Primavera Araba perché, per ora, non ha una guida ideologica o politica. Sono diverse, però, perché negli Stati Uniti si tratta della rivoluzione di una classe, che sta avendo luogo all’interno di una struttura politica che ha l’abilità di dialogare e di negoziare. La Primavera Araba, invece, ha portato direttamente all’implosione della situazione in molti casi, perché non esiste un governo istituzionalizzato in grado di fare ciò, e questo è un problema che affligge il Medio Oriente da 1.400 anni.
Del resto, anche la rivoluzione americana che si è espressa attraverso il meccanismo delle elezioni sembra aver fallito per adesso. Il suo fallimento, però, non è inevitabile né eterno. Potrebbe portare verso la destra populista, ma non è l’unica direzione possibile. Dall’altro lato, si guardi al mondo arabo. Le scene dei bombardamenti lanciati dal regime sul popolo siriano evidenziano le incredibili differenze con la situazione americana. Dirigendo poi lo sguardo in Egitto, qui il popolo si è stufato del governo dei Fratelli Musulmani, ma si è ritrovato ad averne abbastanza anche di Abdel Fattah Al-Sisi, un regime costruito sulle rovine di quello precedente. E in tutti questi esempi, non ci sono alternative, vie d’uscita o dialoghi possibili.
Khalid al-Dakhil è un accademico e scrittore saudita.
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