Di Jeanine Jalkh. L’Orient-Le Jour (18/03/2015) Traduzione e sintesi di Chiara Cartia.
“La prudenza non può andare contro il destino”, disse il primo ministro Rafiq Hariri il giorno prima del suo assassinio. Presentimento o ironia della storia, Hariri aveva pronunciato queste parole con un gran sorriso, prendendo alla leggera gli avvertimenti dei suoi amici, il deputato Marwan Hamadeh e l’ex-deputato Bassem Sabeh, che insieme al capo del Partito Socialista Patriottico, Walid Jumblatt, gli erano andati a fare visita per appoggiare il suo avvicinamento esplicito all’opposizione rappresentata dal cosiddetto “Fronte del Bristol”.
Questi fatti sono stati raccontati da Sabeh, che per il secondo giorno consecutivo ha testimoniato davanti al Tribunale speciale libanese nel processo che indaga sulla morte di Rafiq Hariri.
Nella sua relazione, Sabeh ha descritto gli ultimi sviluppi prima dell’assassinio dell’ex primo ministro, avvenuto il 14 febbraio 2005, in particolare il cambiamento qualitativo all’interno dell’opposizione pluralista riunita nell’ambito del Bristol, che “da un semplice raggruppamento politico era diventata, il 2 febbraio 2005, un raggruppamento strutturato”. Il testimone ha inoltre evocato la posizione di Hariri rispetto alla legge elettorale e le molteplici minacce e avvertimenti che gli erano stati indirizzati tramite i servizi segreti siro-libanesi. In breve, ha tracciato un nuovo quadro storico per aiutare i giudici a capire meglio le circostanze politiche e securitarie del reato.
L’ex deputato ha parlato così della presa di posizione audace adottata dall’opposizione alla terza riunione del Bristol, il 2 febbraio, e “l’unanimità dichiarata rispetto al ritiro delle truppe siriane dal Libano”. “La battaglia politica (…) mirava ormai a estirpare l’egemonia siriana sul Libano”.
Quando poi al testimone è stato chiesto perché i siriani avessero boicottato il patriarca maronita di Beirut, Sabeh ha risposto: “Per tagliare i ponti tra Hariri e il patriarcato”.
In effetti, durante una visita al patriarca, che coincideva con una festa religiosa cristiana e musulmana, l’ex primo ministro aveva intenzione di far pervenire diversi messaggi politici: quello della convivialità intercomunitaria, delle elezioni e della necessità di emendare la legge elettorale. Quando l’arcivescovo gli chiese: “Quand’è che il Paese uscirà dal reparto della terapia intensiva?”, Hariri rispose: “Il problema non è il paziente, ma il medico curante. Il paziente è guarito, ma il medico lo vuole tenere per forza in ospedale” (chiara allusione alla tutela siriana).
L’importanza di questa visita risiedeva anche nella dichiarazione di Hariri che non avrebbe più accettato i candidati imposti dalla Siria sulle sue liste per le legislative ma soprattutto che bisognava far fronte a quella evenienza mano nella mano con il patriarca.
Sabeh racconta anche come qualche minuto primo dell’attentato, al parlamento, l’ex primo ministro chiese a Sabeh di disegnare un sorriso a 32 denti davanti alle telecamere per sfidare chiunque credesse che fossero desolati e impauriti.
Il giudice è allora intervenuto per dire che “un fantasma – il regime siriano – aleggia all’interno del tribunale, ma quanto detto davanti alla Corte non lo riguarda”, per poi porre una domanda a Sabeh su Hezbollah. L’ex deputato ha risposto che “non è affatto un fantasma, ma una realtà dura e pura” e che “Hezbollah all’epoca non era nelle prime file del confronto politico con Hariri”.
Sabeh ha concluso rivelando che era arrivato un avvertimento ad Hariri, qualche anno prima del suo assassinio, avvertimento che aveva spinto l’ex direttore della sicurezza generale, Jamil Sayyed, a dire che “Hariri non aveva davanti a sé che tre scelte: l’esilio, la prigione o la morte”.
Jeanine Jalkh è una reporter nonché analista politica per L’Orient-Le Jour.