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I rifugiati cristiani in Giordania: “Per Natale? Un futuro migliore”

Di Alice Su. Al-Jazeera (25/12/2014). Traduzione e sintesi di Lorenzo P. Salvati

In Giordania, il Natale è per le minoranze e i privilegiati. La classe media riempie i centri commerciali e si riversa nei viali nella capitale di Amman, mentre i cristiani, circa il 3% della popolazione, approfittano del loro giorno di riposo. Le chiese del Paese si preparano a celebrare le festività distribuendo cibo e organizzando feste per le masse di rifugiati, sforzandosi di dare una parvenza di normalità alla ricorrenza.

Celebrare il natale non è facile per i rifugiati, secondo Hanna Massad, una cristiana battista originaria della Striscia di Gaza che officerà una funzione evangelica per gli iracheni. “Cerchi di rincuorarli creando un clima di festa, ma loro pensano a come sopravvivere, pagare l’affitto e dare da mangiare ai figli”. Aggiunge: “Le loro ferite sono profonde”.

Dicembre è un mese di festa in Occidente. Luci natalizie, riunioni familiari, scambi di regali e veglie sfarzose. Per i neo-rifugiati della Giordania, provenienti soprattutto da Siria e Iraq, il Natale significa acqua ancora più fredda e l’acutizzarsi del senso di allontanamento da casa, luogo in cui non possono fare ritorno.

Il 1° dicembre scorso il Programma Alimentare Mondiale (WFP) ha confermato di aver sospeso gli aiuti alimentari a circa 1,7 milioni di profughi siriani in Giordania, Libano, Turchia, Egitto e Iraq a causa della mancanza di finanziamenti. Poche settimane prima, la Giordania aveva annunciato che non avrebbe fornito assistenza medica ai rifugiati siriani. Malato e infermo, Abu Essa non può pagarsi il cibo e le medicine. Vorrebbe tornare in Siria dalla moglie, ma verrebbe immediatamente catturato e giustiziato per le sue proteste antigovernative. “La Siria è pericolosa, ma si può vivere. È meno cara della Giordania e nessuno ti guarda come fossi un alieno”, sostiene.

I bisogni dei rifugiati in Giordania sono urgenti, in crescita e ancora irrisolti. La campagna ONU per la Siria del 2014 ha raccolto appena la metà dei 3.7 miliardi di dollari richiesti. Più a lungo i rifugiati restano in Giordania, peggiore diventa la loro condizione. I risparmi personali si esauriscono rapidamente quando le risorse per l’assistenza umanitaria si assottigliano. Nel frattempo, i rifugiati siriani cercano lavoro: i bambini raccolgono i rifiuti invece di andare a scuole, le ragazze si sposano per sopravvivere e gli uomini si arrabattano con lavoretti quotidiani e in nero, rischiando l’arresto e la deportazione. Ha fatto clamore la recente notizia della deportazione di 16 medici siriani colpevoli di aver curato dei rifugiati gravemente feriti senza possedere delle licenze conformi alla legislazione giordana.

I cristiani iracheni fanno parte dell’ultima ondata di profughi giunta in Giordania. Ma a differenza dei siriani non hanno alcuna intenzione di rimpatriare. Secondo Ala Nadim al-Alamat, reverendo della chiesa locale divenuta centro di accoglienza profughi, “per loro non c’è un dopo. Non desiderano né sperano di rientrare. Stanno solo aspettando di ottenere i permessi di soggiorno”.

La Giordania non ha obblighi legali nei confronti dell’occupazione lavorativa dei rifugiati. Sebbene l’ONU promuova il diritto ai mezzi di sussistenza, i termini e i modi in cui ciò avviene restano vaghi. In pratica l’UNHCR e le agenzie partner sviluppano una rete informale di programmi occupazionali, badando bene a non esercitare pressioni sul governo giordano. “I governi sono preoccupati dalla sicurezza interna e dall’impatto economico, demografico e sociale sui loro paesi. Nel migliore dei casi, vorremmo vedere i rifugiati vivere fuori dai centri di accoglienza e diventare autosufficienti” sostiene il portavoce UNHCR Ron Redmond. “Ma questo non è possibile quando un milione e passa di rifugiati convergono in un piccolo Paese”.

La Giordania può così deportare i siriani e violare apertamente i principi umanitari internazionali, senza incontrare evidenti ripercussioni.
Il Dipartimento di Stato americano incoraggia il diritto all’occupazione dei rifugiati. Gli Stati Uniti affermano di offrire ai profughi piene possibilità di immissione immediata nel mercato occupazionale per migliorare la loro condizione economica di partenza. Tuttavia solo 306 siriani sono stati ammessi in Nord America dall’inizio della crisi, contro i 620.000 cha hanno attraversato il confine con la Giordania occupando posti di lavoro, gravando sulle infrastrutture e creando numerosi problemi di sicurezza interna. Gli americani avanzano continuamente pretese sul processo di reinsediamento, ma il governo giordano non intende permettere ai rifugiati di stabilirsi in modo permanente.

Le alternative percorribili, però, non sono molte. Saeed Abu Essa ha rimandato il progetto di emigrazione in Europa, ma ipotizza che ulteriori tagli all’assistenza umanitaria potrebbero spingere numerosi rifugiati ad unirsi ai gruppi radicali in Siria: “La gente vuole sfamare le famiglie” ha detto. “Qui non c’è cibo, ma a casa nostra i jihadisti offrono salari elevati. Dove pensi che andranno i siriani?”.

Alice Su è una giornalista giordana, residente ad Amman, che si occupa di rifugiati, religione e Medio Oriente.

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