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Raif Badawi: un’ipocrisia saudita che abbiamo scelto di ignorare

Raif Badawi Arabia Saudita

Di Robert Fisk. The Independent (14/01/2015). Traduzione e sintesi di Angela Ilaria Antoniello.

Sir William Hunter, un alto funzionario britannico, nel 1871 pubblicò un libro che metteva in guardia da “sciami” di fanatici musulmani sunniti finanziati da “uomini di ampia fortuna”, mentre la maggior parte dei musulmani veniva costretta a decidere se essere devota seguace dell’islam o un “soggetto pacifico”.

Hunter identificò un “predicatore dell’odio” come la causa di questo “terrore”, un uomo ispirato da un musulmano asceta chiamato Abdul Wahab, i cui violenti seguaci “wahhabiti” avevano formato un’alleanza con la Casa di Saud. Le crudeltà commesse dai wahhabiti, come quelle dei loro sostenitori sauditi, fanno apparire la flagellazione pubblica del blogger saudita Raif Badawi un reato minore. L’ipocrisia è stato un tema tanto della storia araba quanto di quella europea.

In quei giorni, ovviamente, il petrolio non aveva alcun valore. Il sovrano saudita fu spedito a Costantinopoli nel 1818 perché la superpotenza locale, l’Impero Ottomano, aveva chiesto la sua  testa e gli Stati europei non denunciarono l’accaduto. Ma le successive campagne di conquista saudita-wahhabita, e quindi la rapida transizione del petrolio dalla repellente nafta nera, in cui le pecore arabe regolarmente annegavano, nei vasi sanguigni del mondo occidentale, fece sì che la violenza wahhabita fosse convenientemente separata dalla Casa di Saud e ignorata sia dagli europei che dagli americani.

Le guerre della Gran Bretagna contro i wahhabiti indiani musulmani furono feroci come lo sono oggi in Europa, anche se molto più costose in termini di vite umane. E se Hunter, a ragione, identificò l’appartenenza alla seconda classe, la mancanza di lavoro e la scarsa educazione dei musulmani sunniti indiani come causa dell’insurrezione – si prega la Francia di prendere nota – capì anche che ai musulmani indiani veniva chiesto di scegliere tra l’Islam puro e la regina Vittoria. Gli indù dell’India e i governanti britannici erano in guerra con coloro che Hunter, memore delle missioni cristiane medievali a Gerusalemme, caricaturò come “crescentaders”.

Oggi, agli americani ed agli europei piace tracciare una linea tra i sauditi “moderati”, amichevoli, filo-occidentali e ricchi di petrolio che sono lodati per aver denunciato il “vile attentato terroristico” di Parigi, e i loro amici wahhabiti “crescentaders” che decapitano ladri e spacciatori di droga dopo processi iniqui, torturano le minoranze sciite e frustano i propri giornalisti recalcitranti. I wahhabiti sauditi – perché sono, naturalmente, la stessa cosa – piangono lacrime di coccodrillo per l’omicidio dei vignettisti di Charlie Hebdo, mentre simpatizzano con i puristi in Siria, Iraq e Afghanistan che macellano giornalisti e operatori umanitari, distruggono monumenti antichi e schiavizzano le donne.

Come ha sottolineato il giornalista irlandese Fintan O’Toole, ci sono due parole che non devono essere pronunciate nella retorica ufficiale sui morti di Charlie Hebdo: Arabia Saudita. “Un centinaio di miliardi di dollari comprano un sacco di silenzio”, ha scritto. “La casa di Saud gestisce una tirannia viziosa che […] mentre gli assassini di Charlie Hebdo realizzavano l’ultimo atto di censura […] stava frustando selvaggiamente il blogger Raif Badawi per aver osato promuovere il dibattito pubblico”.

Certo, sappiamo tutti la storia. I sauditi stanno in prima linea nella “guerra contro il terrore”, in piedi dietro francesi e europei nella loro lotta contro il “terrorismo”, insieme con gli egiziani, i russi, i pakistani e tutti quegli altri “democratici” nella loro “guerra contro il terrore”.

Non una parola sul Regno come regime wahhabita-saudita. Sarebbe sbagliato farlo. Dopo tutto, i wahhabiti non si definiscono  wahhabiti dal momento che sono “veri” musulmani. Che è quello che sono i sauditi, non è vero?

Robert Fisk è un giornalista corrispondente dal Medio Oriente per il quotidiano britannico The Independent.

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