Di Murat Yetkin. Hurriyet Daily News (19/12/2016). Traduzione e sintesi di Giusy Regina
Esattamente una settimana dopo l’attacco suicida a Beşiktaş, avvenuto il 10 dicembre scorso e che ha ucciso 46 persone e ne ha ferite 166, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) ha sferrato un altro attacco suicida il 17 dicembre, che ha ucciso 14 persone e ferite 56 nella provincia di Kayseri.
L’attacco è stato rivendicato dai Falchi per la libertà del Kurdistan (TAK), una delle tante organizzazioni fantasma del PKK. Si tratta della prima volta che il PKK effettua un attentato al di fuori delle due grandi città della Turchia, Istanbul e la capitale Ankara.
Kayseri, città di epoca romana, è uno dei centri più importanti dell’industria e del commercio locali in Turchia e ospita due grandi basi, una aerea e una militare, che hanno combattuto il PKK in montagna per anni. In questo caso però l’attentatore suicida in realtà ha colpito un autobus pubblico che trasportava soldati disarmati (e non in uniforme), che tornavano dalla base per il congedo del fine settimana. Kayseri è anche una delle città più conservatrici e nazionaliste in Turchia. Basti pensare che solo due settimane fa il presidente Tayyip Erdoğan, il Primo Ministro Binali Yıldırım e quasi l’intero gabinetto erano proprio in città per l’apertura di un museo-biblioteca in onore dell’ex presidente Abdullah Gül, nel suo luogo di nascita.
Subito dopo l’attentato nelle ore del mattino, la folla arrabbiata è scesa per le strade di Kayseri in segno di protesta, puntando, tra gli altri obiettivi, la sede locale del Partito Democratico del Popolo (HDP), che si focalizza particolarmente sul problema curdo. La stessa cosa è avvenuta in diverse città della Turchia. Ed è esattamente questo ciò che il PKK vuole e sta facendo anche sulle montagne di Kindil in Iraq: indirizzare la rabbia delle folle agitate spostandola dagli atti di terrorismo verso i curdi della Turchia. In questo modo la gente in tutto il Paese inizia ad avercela con i loro vicini solo perché curdi, i quali a loro volta saranno costretti a schierarsi con il PKK per avere protezione.
Questa è la ricetta del Partito dei lavoratori del Kurdistan per portare la Turchia alla guerra civile. D’altronde il PKK ha abbandonato il dialogo già da tempo e, ad essere sinceri, il governo non ha insistito più di tanto per riprenderlo.
Due sviluppi hanno rovinato in effetti i piani del PKK. Il primo riguarda la decisione di Erdogan di mandare l’esercito turco in Siria, nonostante fosse indebolito dal tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016. Questa decisione aveva il duplice scopo di spingere DAESH più a sud ed evitare che il PKK accorpasse i “cantoni” di Afrin e Kobane, prendendo pieno controllo lungo il confine turco con la Siria. In secondo luogo, Donald Trump ha vinto la presidenza degli Stati Uniti. Se avesse vinto Hillary Clinton, ci sarebbe stato un continuum con gli scenari dell’amministrazione Obama. Il PKK invece crede che il nuovo presidente non darà loro alcuna priorità e per questo vuole “riposizionarsi” prima che Trump prenda ufficialmente l’incarico. E l‘unico metodo è proprio quello di attirare l’attenzione con una escalation terroristica in Turchia, che resta un importante alleato militare degli Stati Uniti, tentando anche di trascinare il Paese in una guerra civile.
Le preoccupazioni della Turchia non riguardano solo altri eventuali attentati del PKK, ma anche DAESH e al-Qaeda, che potrebbero attaccare nei prossimi giorni come reazione alla politica della Turchia in Siria e alla riconciliazione con la Russia su Aleppo.
Il compito più importante dunque del governo turco, ma anche della società civile e dei media, è quello di prevenire una spaccatura tra sunniti e alevi e tra turchi e curdi, che comunque non rientrerebbe nemmeno negli interessi degli USA, né dell’Unione Europea, né della NATO.
Murat Yetkin è un giornalista e opinionista turco.
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