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Perché gli USA intervengono in Kurdistan ma non in Siria

Di Hussain Abdul-Hussain. Now Lebanon (11/08/2014). Traduzione e sintesi di Cristina Gulfi.

La recente intervista di Barack Obama con Tom Friedman rivela un presidente realista, con un’adeguata comprensione dei punti di forza e di debolezza del potere americano, nonostante le sue molte contraddizioni. Obama ha citato un vecchio proverbio: potete portare un cavallo all’acqua, ma non potete obbligarlo a bere. Il presidente crede – e non si sbaglia – che gli Stati Uniti, per fare la differenza, hanno bisogno di partner disponibili e competenti.

Un Obama più scaltro rispetto al passato. Sul conflitto israelo-palestinese, già nel 2010 ha ammesso che premere per la pace non è stata una scelta intelligente, concludendo che l’America non può volere la pace più dei diretti interessati. Ma tra i rimorsi del presidente americano c’è anche la Libia, in particolare la gestione del Paese all’indomani della caduta di Gheddafi. È una posizione coerente con la sua logica: Obama odia i dittatori, ma ancor di più la loro caduta perché teme “il giorno dopo”.

Il presidente americano giustamente crede di dover far ricorso al potere con prudenza e moderazione, sulla base dei propri interessi. Ad esempio, il Libano fu abbandonato alla guerra civile perché gli Stati Uniti non avevano motivo di difenderlo, data l’inaffidabilità degli alleati a Beirut. Ciò non significa che gli Stati Uniti non fossero disposti a combattere. Infatti nel 1979, all’indomani della rivoluzione iraniana, l’allora presidente Carter, temendo che i sovietici approfittassero del caos per invadere il Golfo, considerò il ricorso ad attacchi nucleari in Iran. In seguito mise insieme un manuale per interventi rapidi, in modo che gli Stati Uniti fossero pronti alla guerra anche con scarso preavviso.

Non per questo Washington ha avuto il grilletto facile: sono trascorsi 12 anni prima dell’intervento in Kuwait, poi è venuto anche il Kosovo. In seguito all’11 settembre, invece, un’America furiosa si è precipitata in guerra. Tuttavia, l’Afghanistan e l’Iraq hanno rivelato i limiti del potere americano, questa volta usato per vendetta più che per tutelare degli interessi.

L’unico vantaggio della guerra in Iraq è la lezione che l’esercito americano ha imparato: “Liberare, mantenere e trasferire” è stata la tecnica utilizzata, rifacendosi al manuale sulle guerre asimmetriche. Ogni coinvolgimento militare statunitense richiede questi tre elementi. In assenza di partner, come in Siria, il trasferimento diventa impossibile, rendendo l’intervento sconsigliabile e turbando Obama sul dopo Assad.

L’ormai ex primo ministro iracheno, Nuri Al-Maliki, ha fatto credere a Washington di non avere un partner a Baghdad. Così, quando l’ISIS ha conquistato il nord-ovest del Paese, gli Stati Uniti non si sono precipitati a salvarlo. Rispetto all’avanzata dell’ISIS verso Erbil, invece, i calcoli sono stati diversi.

In Kurdistan gli Stati Uniti hanno degli stretti alleati. I curdi, le cui forze peshmerga hanno la possibilità di respingere l’ISIS se addestrate e armate, stavano ripiegando, per cui gli americani sono immediatamente sopraggiunti. Ciò non vuol dire che Washington sta assalendo l’ISIS, ma che sta impedendo agli islamisti di sconfiggere i suoi alleati.

La linea di fondo è che i partner sono un prerequisito per qualsiasi intervento americano. Quando Obama ha detto a Friedman che i ribelli siriani non avevano capacità militare, probabilmente intendeva che non c’erano potenziali alleati tra le loro fila.

Forse, se l’opposizione siriana avesse mostrato un autogoverno di successo come in Kurdistan e si fosse posta come un fedele alleato degli Stati Uniti, le forze americane avrebbero fornito copertura aerea per impedire che le aree liberate cadessero nelle mani di Assad. Niente eccetto questo farà sì che Obama guardi alla Siria e veda quello che tutti vedono: sanguinosi massacri che gli fanno male al cuore, ma che non lo obbligano ad usare la forza degli Stati Uniti per porvi fine.

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