Di Raghida Dergham. Al-Arabiya (06/07/2015). Traduzione e sintesi di Angela Ilaria Antoniello.
Le Nazioni Unite hanno per le mani due opportunità cruciali che vale la pena sostenere perché né in Libia né in Yemen ci sono alternative. La situazione in questi due Paesi, così come in Siria, è straziante e richiede interventi urgenti. L’inviato ONU in Siria, Staffan De Mistura, è ancora alla ricerca di un meccanismo per mettere in atto le disposizioni di Ginevra che avevano ricevuto il sostegno unanime dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Questo prima che alcuni lo rinnegassero. A Ginevra si era deciso di optare per un governo di transizione che includesse sia il regime che l’opposizione, e che avrebbe avuto il compito di preparare le elezioni. De Mistura sta ancora cercando di persuadere l’Arabia Saudita ad accettare l’Iran come attore chiave e come partner nel plasmare il futuro della Siria.
L’inviato dell’ONU per lo Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed, da parte sua, sta spingendo per una tregua umanitaria che aprirebbe la strada ai negoziati politici. La tragedia umanitaria in Yemen, classificata dall’ONU come una crisi di “livello 3”, richiede l’imposizione di un cessate il fuoco da parte del Consiglio di Sicurezza e il dispiegamento di forze internazionali. Richiede inoltre il sostegno della coalizione araba, soprattutto attraverso ingenti somme di denaro che evitino al Paese la carestia è una possibile “somalizzazione” o “afghanizzazione”. In Libia sembra che gli sforzi dell’inviato delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, stiano dando buoni frutti. L’Egitto ha ribadito il suo sostegno alla missione e l’ONU si è accodata. Leon ha messo a punto il quinto progetto in 9 mesi per una soluzione politica, e crede che, se accettato, questo documento potrebbe costituire una road map per un governo di unità nazionale accompagnata da un cessate il fuoco e un accordo per disarmare le milizie. Se il progetto dovesse fallire si renderebbe necessario un intervento militare prima che la Libia si trasformi irreversibilmente in uno Stato fallito interamente controllato da milizie e terroristi.
Il punto di vista dell’ONU sullo Yemen è che le diverse parti yemenite devono concordare come minimo una tregua immediata che duri per tutto il mese di Ramadan affinché si possano consegnare gli aiuti umanitari, insistendo sull’impossibilità di una soluzione militare. Il Consiglio di Sicurezza biasima tutte le parti dato che stanno ignorando la risoluzione 2216 mentre il Paese è sul punto di diventare un vespaio per Daesh e Al-Qaeda .
Nel Golfo c’è preoccupazione per le possibili implicazioni della somalizzazione e afghanizzazione dello Yemen. Per questo motivo, i leader del Golfo deve essere franchi e adottare politiche pragmatiche per uscire da questa situazione difficile, indipendentemente dal fatto che fosse giusto o sbagliato andare in guerra in Yemen. La decisione giusta adesso è andarsene perché non c’è possibilità di affermarsi sul terreno. C’è, inoltre, preoccupazione per la frammentazione dell’esercito iracheno e per un possibile intervento dell’Iran per combattere Daesh in Iraq. È tempo per gli attori del Golfo di impegnarsi, di riflettere e pensare a delle misure concrete piuttosto che cercare aiuto dagli altri.
A ciò si aggiunge la grave crisi di fiducia tra il Golfo e gli Stati Uniti che non è stata ricolta dal vertice di Camp David, al quale, tra le altre cose, la partecipazione della Russia non ha giovato: Putin ha detto che i russi hanno buone relazioni con tutti i Paesi della regione e ha chiesto un’alleanza contro il terrorismo invece di cercare di rovesciare Assad in Siria.
Barack Obama sta ancora lavorando ai negoziati con l’Iran. La differenza che emerge nelle ultime settimane è che Obama ora ha garantito la sua eredità come presidente a seguito della decisione della Corte di Cassazione di approvare l’Obamacare e la legittimità dei matrimoni gay, mentre il Senato ha approvato gli accordi fast-tracking di libero scambio con le nazioni del Pacifico, una grande conquista per lui, per non parlare della normalizzazione storica con Cuba. Questi risultati potrebbero costituire un incentivo in più a sigillare un accordo con l’Iran a qualsiasi prezzo, ma anche uno stimolo a non compromettere gli interessi degli Stati Uniti.
Qualcosa accadrà. Ci sarebbe da aspettarsi un cambiamento nelle politiche in Medio Oriente di Obama, che si raggiunga o meno un accordo sul nucleare. Vale la pena che i leader arabi e del Golfo attuino misure e disegnino strategie per entrambi gli scenari.
Raghida Dergham è editorialista e corrispondente diplomatica di Al-Hayat.
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