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Nessun lieto fine per Gaza

Di Aaron David Miller. Haaretz (31/07/14). Traduzione e sintesi di Alessandra Cimarosti.

Come molti dei confusi problemi nell’arrabbiato e anomalo Medio Oriente, la crisi Israele-Gaza sembra destinata anch’essa ad avere un finale sconnesso invece di una soluzione determinante.

Gli americani, così come gli europei, hanno bisogno di realizzare le proprie ossessioni, ottenendo un finale ragionevole, definitivo, felice, un finale hollywoodiano: passando dalla primavera araba alla pace israelo-palestinese. Hanno bisogno di prendere in considerazione una realtà essenziale. Sono in una regione che non possono lasciare ma nemmeno trasformare. E che lascia possibile solo una via: affrontarla il meglio che si può. Gaza ne è il simbolo. Ecco perché.

Prima di tutto, sono quatto le parti implicate nell’esito della questione di Gaza: Israele, Hamas, l’Autorità Palestinese e l’Egitto. Due di queste parti non comunicano direttamente tra di loro (Israele e Hamas); un’altra coppia (AP e Hamas) nonostante un accordo, continua ad avere grandi dispute; infine, un’altra coppia (Egitto e Hamas) è implicata in azioni di guerra. Come se non fossero abbastanza, ci sono poi quattro mediatori: gli Stati Uniti, il Qatar, la Turchia e l’Egitto stesso. Se a tutto questo si aggiunge un conflitto cinetico che porta ogni giorno nuove morti e distruzione, si otterrà una pozione magica di problemi che rendono impossibili facili e veloci soluzioni.

In secondo luogo, c’è ancora un’insufficiente urgenza alla riduzione delle violenze. Nonostante la gravità della situazione, in particolare per i palestinesi di Gaza, né Hamas né Israele pensano di fermarsi. Per quanto riguarda gli israeliani, l’Iron Dome ha effettivamente ridotto le minacce da parte di Hamas. Israele vuole provare a raggiungere un risultato strategico che porti ad una sconfitta di Hamas con un indebolimento ingente dell’ala militare, distruggendo tunnel, razzi e kamikaze. Per quanto riguarda Hamas, sembra credere di poter continuare a resistere e vincere politicamente semplicemente sopravvivendo, facendo leva sull’asimmetrica natura delle perdite umane, cercando di infangare il nome di Israele.

In terzo luogo, ci sono obiettivi incompatibili. Hamas ha parlato di togliere l’assedio su Gaza e gli israeliani hanno identificato la demilitarizzazione come il loro obiettivo principale. Nessuna delle due sembrano possibili nell’attuale situazione. E qualsiasi cosa sarà fatta, sarà graduale e progressiva e non trasformativa. Nemmeno l’ostilità egiziana nei confronti di Hamas, con le restrizioni sull’attraversamento di Rafah, il maggiore passaggio da Gaza, allevierà la situazione. Per quanto riguarda la demilitarizzazione, se gli israeliani non inizieranno a farlo, nessun altro lo farà.

In quarto luogo, che ne è del processo di pace? Qualsiasi soluzione richiederebbe un cambiamento drammatico con la fine dell’occupazione israeliana e la soluzione a due Stati. Il presidente palestinese Abbas sembra oggi più debole di fronte alla crescita dell’immagine di Hamas. Le distanze tra Abbas, e il primo ministro israeliano Netanyahu sono incolmabili su questioni fondamentali come Gerusalemme o i rifugiati. E non c’è fiducia. L’America ha preso un altro colpo tra i suoi scivoloni sui negoziati per il cessate il fuoco.

Quindi, cosa si può fare? Bisogna pensare ad una transazione e non a una trasformazione. Solo a questo punto i mediatori saranno capaci di produrre una qualche forma di cessate il fuoco. Una soluzione del genere dovrebbe offrire vantaggi economici e una maggiore libertà di movimento per gli abitanti di Gaza, pagare gli stipendi di Hamas, fornire aiuti per la ricostruzione di Gaza e soddisfare gli israeliani assicurando che i tunnel non verranno riaperti, saranno monitorati internazionalmente e che l’Egitto e altri continueranno a bloccare il contrabbando e la fornitura di armi per Hamas. Non è una soluzione perfetta, ma potrebbe essere funzionale. La crisi può a volte, produrre sempre maggiori soluzioni ambiziose. E si può continuare sempre a sperare.

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