Di Rachel Shabi. Al-Jazeera (06/07/014). Traduzione e sintesi di Angela Ilaria Antoniello.
Eccoci di nuovo a fissare una serie di terribili eventi in Israele e nei territori palestinesi. Un sedicenne palestinese, Mohammed Abu Khdeir, è stato rapito, accoltellato e poi bruciato vivo. Non lo sappiamo per certo, ma la polizia israeliana segnala un probabile movente “nazionalista” – il che significa che i suoi assassini sono ebrei israeliani.
Questo omicidio arriva dopo il ritrovamento, nella Cisgiordania occupata, dei corpi di tre adolescenti israeliani rapiti. La ricerca militare per Eyal Ifrach, Gilad Shaer e Naftali Frankel, durata 18 giorni e durante la quale sei palestinesi sono stati uccisi e centinaia di altri detenuti senza accusa, è stata definita da Amnesty International come una “punizione collettiva”.
La notizia che i ragazzi israeliani erano stati uccisi ha scatenato un clamore crescente di vendetta. Ma la dura verità è che questo agghiacciante clima vendicativo – a cui che le famiglie dei ragazzi israeliani uccisi si sono opposte – non può essere una sorpresa. Gli opinionisti israeliani hanno da tempo lanciato l’allarme sul Paese, lamentando una nazione belligerante, isolazionista, corrosa a suo modo dalla brutale occupazione che ha violato la vita dei palestinesi.
E la nazione ha proseguito su questa strada: le ferite della storia del popolo ebraico sono state abusivamente riaperte da leader che predicano l’etno-nazionalismo più distruttivo. Invece di invitare alla calma in un momento critico come il giorno in cui sono stati trovati i corpi dei tre israeliani uccisi, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha citato il poeta Haim Bialik: “Vendetta per il sangue di un bambino piccolo”. Dunque, non possiamo essere sorpresi se queste parole sono state percepite come segno di approvazione da parte delle folle mosse dall’odio. E c’è poco da meravigliarsi che l’ex capo della sicurezza di Israele, Yuval Diskin, ha dato al governo di Netanyahu la colpa per le attuali tensioni.
Diskin ha indicato una serie di “illusioni” che il governo ha propagato per qualche tempo – non ultima l’idea che “i palestinesi semplicemente accetteranno tutto quello che stiamo facendo in Cisgiordania e non risponderanno, nonostante la rabbia, la frustrazione e il peggioramento della situazione economica”.
Nel frattempo, oggi, come sempre, delle intelaiature mediatiche sono impostate per inclinare la storia. Non vi è alcuna giustificazione per l’uccisione dei tre adolescenti israeliani – troppo spesso solo etichettati come “coloni”, come se il fatto di trovarsi nei territori occupati neghi in qualche modo il loro diritto di essere bambini innocenti.
Ma la violenza non è iniziata lì. I palestinesi guardando i media occidentali si chiedono perché la narrativa del “ciclo della violenza” non inizia mai con il loro dolore, con i loro figli uccisi, o anche con la violenza quotidiana dell’occupazione israeliana.
Per ora, dobbiamo sapere dove tutto inizia e finisce. Abbiamo visto decenni di fallimento politico a livello internazionale creare il vuoto che genera la violenza per le strade. È chiaro che tutto questo non finirà si finché l’occupazione israeliana continuerà. E nel frattempo, tutto il dolore e la sofferenza sono grotteschi. È tutto evitabile. È tutto tragico, oltre le parole.