Di Mat Nashed. Middle East Eye (06/04/2017). Traduzione e sintesi di Antonia M. Cascone.
Il razzismo è un problema nel mondo arabo, eppure ancora troppe persone lo negano. La settimana scorsa, in Kuwait, una collaboratrice domestica etiope è precipitata dal balcone della sua datrice di lavoro. L’episodio è stato filmato e, nonostante la donna sia sopravvissuta alla caduta, ha più tardi rivelato che era stata proprio la sua datrice di lavoro a cercare di ucciderla. Non si tratta di un incidente isolato: in molti Paesi arabi sopravvive ancora la kafala, o tutela, che lega a doppio filo i lavoratori migranti sottopagati ai loro datori di lavoro, concedendo a questi ultimi il potere di confiscare i passaporti dei lavoratori, disporre dei loro salari e sottoporli a terribili abusi. Anche nei Paesi nei quali non si applica la kafala, i rifugiati e i migranti non occidentali sono giornalmente vittime di abusi da parte dello Stato, della comunità, e anche di organizzazioni finanziate per sostenerli.
L’ironia è lampante. In un mondo in cui musulmani e arabi sono stati a lungo vittime di razzismo e imperialismo, ancora troppe società faticano a rendersi conto del modo in cui trattano gli immigrati più vulnerabili che vivono al loro interno. E qui si trova il paradosso più evidente: come può una società sconfiggere il razzismo quanto se ne fa promotrice essa stessa?
L’anno scorso, un report sulla tratta di esseri umani stilato dal Dipartimento di Stato americano annoverava sei Stati arabi nella sua lista. A parte il Libano, tutti erano membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). In luoghi come Qatar e Kuwait, più del 90% della forza lavoro proviene dall’Africa e dall’Asia meridionale e mediorientale. I reclutatori adescano i lavoratori con false promesse di paghe oneste, con un giorno libero a settimana. È solo dopo essere arrivati a destinazione che molti lavoratori realizzano di essere stati reclutati per svolgere mansioni che li equiparano a schiavi, a cui non avrebbero mai acconsentito. L’International Trade Union Confederation stima che più di 4.000 lavoratori sottopagati moriranno per edificare le infrastrutture in vista dei Mondiali di calcio nel 2022. Quattro mesi fa, il Qatar ha apportato delle modifiche alle leggi sul lavoro, apparentemente per meglio tutelare i diritti dei lavoratori immigrati. Ciò nonostante, le organizzazioni per i diritti umani hanno affermato che queste riforme grattano a malapena la superficie in termini di salvaguardia contro abusi e sfruttamento.
I collaboratori domestici, di solito donne, sono ancora più a rischio: molte sono recluse e quotidianamente sottoposte alla fame e agli abusi fisici. La datrice di lavoro è nella maggior parte dei casi la carnefice o, comunque, la complice di questi abusi. Nel 2008 Human Rights Watch ha rivelato che almeno una collaboratrice domestica immigrata in Libano muore ogni settimana, a seguito di “cause innaturali”, come presunto suicidio o a seguito di sospette cadute da edifici molto alti. I politici non sembrano prendere abbastanza seriamente questi maltrattamenti perpetrati ai danni degli immigrati e, nonostante gruppi locali a difesa dei diritti umani abbiano militato incessantemente a supporto dei lavoratori, ancora larghe fette della popolazione libanese continuano a normalizzare il discorso razziale.
Altrove nella regione, il razzismo si esprime in forme più sottili. I membri della comunità nubiana in Egitto, ad esempio, sono spesso ritratti dai media come servitori e costituiscono inoltre il capro espiatorio nei casi di microcriminalità. Eppure, gli attivisti nubiani affermano di ricevere un trattamento migliore rispetto ai migranti sub-sahariani e ai rifugiati. A quanto pare, in Egitto, più scuro sei, più acuta diventa la discriminazione. Anche in Giordania si fatica ad uniformarsi ad un unico criterio: lo scorso anno, la regina Rania ha condannato la crescente islamofobia, dichiarando il suo supporto per i siriani in Europa. È addirittura arrivata ad affermare che i “rifugiati non sono numeri, ma esseri umani come voi e me”. Le sue parole potrebbero avere un significato se la Giordania non avesse deportato 800 rifugiati sudanesi per protesta contro l’Agenzia per i rifugiati dell’ONU.
Di certo, il razzismo non è prerogativa del mondo arabo, ma neanche si può affermare che ne sia immune. Non sono abbastanza coloro che denunciano abusi perpetrati ai danni di persone di colore, e sembra che davvero pochi facciano una piega quando qualcuno di loro viene ucciso. È tempo che più arabi difendano i diritti degli altri popoli nello stesso modo in cui difendono i propri. Il razzismo dilaga in tutta la regione ed è solo la solidarietà, e non l’incapacità di ammetterlo, a poterlo sconfiggere.
Mat Nashed è un giornalista impegnato sulle questioni relative al Medio Oriente, in particolare le migrazioni.
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