“Memorie migranti” è il tema della serata inaugurale della XV Edizione del Festival Delle Letterature di Roma, apertosi qualche giorno fa nella suggestiva cornice della Basilica di Massenzio. Ospite internazionale della serata lo scrittore turco Hakan Günday che ha letto nella sua lingua un toccante inedito dal titolo “Occupato”.
Il testo è una struggente lettera che l’io narrante scrive alla moglie Zahila nel corso del suo disperato viaggio verso l’Europa, in fuga dalla martoriata Siria. La voce narrante racconta di trovarsi ad Istanbul da due settimane, ha trovato un lavoro in un laboratorio tessile dove insieme a lui lavorano molti altri migranti, somali, pakistani ma soprattutto siriani. Le condizioni di lavoro sono pessime, si lavora fino a diciotto ore al giorno. Ma tutti lavorano per raggiungere lo stesso obiettivo: mettere da parte i soldi necessari per oltrepassare il confine con la Bulgaria e così, di confine in confine, arrivare in Germania. Sono sogni e tutti hanno la consapevolezza di inseguire un sogno. È solo quella consapevolezza che li spinge a lavorare fino allo sfinimento accettando condizioni tanto umilianti da non poterle nemmeno immaginare in situazioni normali.
L’io narrante racconta dei suoi compagni di lavoro. Nur, per esempio, che ha cinquant’anni e viene da Aleppo. Nur legge l’oroscopo e chiede a tutti il proprio segno zodiacale. Ma quale influenza può avere la data di nascita se si nasce in un paese in guerra? Il destino di una persona non è tanto deciso dalla data di nascita, quanto dal luogo nel quale si viene alla luce. C’è molta differenza fra nascere a Parigi o nascere a Raqqa. Anzi è molto facile predire il futuro di una persona che nasce in Europa e quello di una persona che nasce ad Aleppo. La diversità geografica determina il percorso di vita. L’astrologia andrebbe ripensata prendendo come riferimento il luogo di nascita e non la data.
E poi c’è Elyas, ha diciannove anni, viene da un villaggio vicino a Raqqa e racconta una storia familiare di puro raccapriccio. Suo padre una sera aveva visto la figlia uscire dal cinema insieme a un ragazzo. Il padre allora chiama Elyas, gli consegna una pistola e gli ordina di ammazzare la sorella per riscattare l’onore della famiglia. Ma Elyas spara al padre. Ora sogna di andare in America. Ma il suo sogno è lacerato dall’aver venduto sua sorella a un ottantenne come seconda moglie per avere i soldi necessari alla fuga.
La voce narrante ci porta a conoscere anche la storia di Hanan, una donna di 73 anni che ascolta i Metallica con gli auricolari. Ascolta i Metallica e piange, ricordando il nipote Mustafa morto nello scoppio di una bomba caduta sulla sua scuola. Mustafa ascoltava sempre i Metallica con il suo iPod e lei si arrabbiava con lui per questo. Ora piange e prega, Hanan, distrutta dal dolore.
E infine l’io narrante racconta della sepoltura della moglie, la sua adorata Zahila, morta per mano di un kamikaze di diciotto anni. Zahila che però è sempre con lui, come il primo giorno a Istanbul quando ha tenuto occupato il posto per lei all’interno del ristorante dove si era fermato a mangiare.
Storie drammatiche, scioccanti che raccontano esistenze disperate, vite in fuga da una guerra impietosa, dove l’odio domina ogni altro sentimento e dove l’unica via di salvezza sembra essere quella di scappare verso un futuro ignoto e altrettanto pericoloso. Ma quando non si ha nulla da perdere qualsiasi cosa è meglio del nulla.
La memoria migrante che ci ha raccontato Hakan Günday è una ulteriore testimonianza che deve farci riflettere sul complesso e difficile momento che stiamo vivendo e sulla drammaticità delle storie che si celano dietro ai volti delle migliaia di persone che ogni giorno approdano sulle sponde di una novella terra promessa.