di Joaquìn Mayordomo (Cuarto poder 12/02/2012) – Traduzione di Claudia Avolio
Coi tempi che corrono, tra attriti politici, idiosincrasie religiose e scontri ideologici, è raro trovare una realtà come quella del Museo ebraico della Memoria (Casablanca, www.casajewishmuseum.com). Si tratta dell’unico museo ebraico al mondo ad essere sorto in un Paese musulmano. Perché a volte la realtà supera i luoghi comuni, per fortuna. L’idea diffusa che ebrei e musulmani “non sono mai andati d’accordo”, soprattutto a partire dal “vespaio” nato in Medio Oriente dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948, sbatte contro questa realtà giudeo-marocchina che il Museo incarna. Al di là di qualunque altro fatto, esso rappresenta un luogo reale e d’incontro permanente, uno spazio per la convivenza oltre che una proposta che miri al futuro. Perché riguardo al passato, dalla documentazione del Museo nella sua preziosa biblioteca, già appare il dato di come gli ebrei giunsero nel Maghreb prima d’ogni altro popolo. Si mescolarono con le tribù berbere autoctone, e ci sono perfino reperti che mostrano come alcune di queste tribù si convertirono all’ebraismo. Ciò dimostra che la convivenza tra marocchini ed ebrei è d’antico retaggio. Chi si è sempre impegnato a dare un tale esempio è Simòn Levy (Fez, 1934-2011): ebreo eterodosso marocchino, idealista, intellettuale impegnato, ispanista, comunista convinto che formò parte del Comitato Centrale del Partito del Progesso e Socialismo (PSP) del Marocco.
Professore all’Università di Rabat e, come egli stesso soleva dire, “un marocchino leale verso il proprio Paese e al suo sovrano”. Levy è scomparso di recente, il 4 dicembre scorso. Per quindici anni ha offerto il proprio esempio, e riveste qui un’importanza speciale che spinge ad analizzare meglio la sua opera di uomo inquieto e singolare. Era un Levy erudito, che discusse la sua tesi di dottorato sulle radici e l’interrelazione della lingua dei musulmani con quella degli ebrei e con lo spagnolo in Marocco, in cui “si sa che giunsero gli ebrei, perfino prima dei romani”. Queste parole sono di Vanessa Paloma Elba e provengono dall’intervista realizzata in ambito del colloquio in omaggio a Levy, evento organizzato la scorsa settimana dall’Istituto Cervantes di Tangeri. Elba è una studiosa dell’opera di questo ebreo-marocchino ispanista, oltre che specializzata in tradizione orale e identità ebraica, e parla di lui così: “Levy è stato un uomo che ha guardato alla storia in modo diverso… Imparò a discernere osservando i più piccoli dettagli della convivenza tra ebrei e marocchini, soprattutto in città come Fez o Meknes, nel corso di secoli bilingue. Ha sminuzzato parole, analizzando i dettagli più insignificanti legati alla sfera privata, e studiando i riti più intimi praticati da questi popoli che convivono da più di duemila anni”.
Era un Levy ribelle, “scomodo, brontolone, anticonformista, marocchino fino all’osso e comunista convinto”, per usare le parole dello storico e arabista Bernabé Lòpez Garcìa. Infine era un Levy che intendeva guidare, sempre, verso la convivenza tra i popoli e lottava infaticabilmente per la giustizia sociale e la libertà in Marocco. Insomma era un attivista in un Paese dove è difficile avanzare verso lo sviluppo e la democrazia, e dove a volte la vita per gli ebrei è stata complicata. Come quando sulla scia della Guerra dei Sei Giorni (1967), 40 mila ebrei marocchini decisero di andarsene – su un totale di 70 mila che abitavano allora nel Paese – mossi dal timore di rappresaglie, qualcosa che per fortuna non si verificò mai. Ad ogni modo adesso, dopo la scomparsa di Simòn Levy, resta il Museo. Il “suo” Museo, per dirlo bene, dato che ne fu creatore e anima negli anni in cui visse entro questo spazio di 700 metri quadrati. Come spiega Zhor Rehihil, che ne è curatrice e che è sempre stata il braccio destro di Levy, “dopo quindici anni di ricerca e sforzo costante, siamo riusciti a recuperare e riscattare buona parte dell’opera e degli oggetti che rappresentano la memoria millenaria del popolo ebraico in Marocco”. Nelle sale d’esposizione permanente si possono ammirare pergamene, ceramiche di gran valore, mobili unici e oggetti di culto, ornamenti, abiti tradizionali, gioielli, documenti antichi…
E un quadro che incornicia la foto di una bandiera marocchina con la stella di Davide a sei punte. “Vedi, il legame ebraico! Fino al 17 novembre del 1915, data in cui il generale Lyautey, massima autorità del Protettorato franco-marocchino, comandò di sostituirla con una stella a cinque punte, la bandiera marocchina portava quest’impronta ebraica”: così spiegava Levy a chi glielo chiedeva. Poi, con l’indipendenza marocchina del 1956, il re Mohammed V confermava “la piena nazionalità marocchina” per i residenti ebrei. Per ciò che riguarda le sale di esposizione temporanee, vi si organizzano mostre di pittura e fotografia, conferenze e concerti. Il Museo si pregia anche di una biblioteca e di una sala di proiezione audiovisiva. La Fondazione del Patrimonio Culturale Ebreo-Marocchino, che è poi chi sostenta il Museo, intraprese sulla scia della sua costituzione nel 1997, una catalogazione minuziosa – e in alcuni casi la sua restaurazione – di sinagoghe, quartieri (mélaj) e cimiteri ebraici disseminati in tutto il Marocco. Sono già decine gli spazi ed i monumenti catalogati e recuperati, alcuni dei quali di gran valore architettonico e culturale. “Per molti di essi possiamo contare su un dettagliato reportage fotografico esposto nel Museo”, dice Zhor Rehihil, che conclude: “Alla fine, l’opera degli ebrei in Marocco è così vasta che diviene parte importante della ricchezza culturale marocchina”
Simòn Levy dovrebbe essere riconosciuto anche come uno degli intellettuali – marocchini o spagnoli – che hanno compiuto i maggiori sforzi per superare i fraintendimenti ed i luoghi comuni con cui, di frequente, si offuscano le relazioni tra Marocco e Spagna. Ricordando i lunghi anni di corrispondenza tenuta con Levy, Bernabé Lòpez Garcìa racconta che egli “ha sempre prestato attenzione ai cambiamenti, politici e sociali, che venivano a verificarsi in Spagna”. Levy era sposato con una spagnola, Paquita, figlia di repubblicani esiliati, e questo certo a quei tempi influiva sul suo voltare lo sguardo d’osservatore fino a qui. Dei loro numerosi anni d’amicizia e collaborazione, Lòpez Garcìa ricorda la presenza costante nelle loro conversazioni di questa idea (vissuta quasi come una ossessione): l’idea che bisognasse superare a tutti i costi i continui lampi di sconforto, che sembrano sempre sul punto di offuscare le relazioni tra questi due Paesi, uniti dallo Stretto di Gibilterra. Ciò che conta, alla fine, è che le riflessioni proposte da questa cronaca si compiano. L’esistenza di questa perla che è il Museo ebraico – unico esempio in un Paese musulmano – sorto in territori “tipicamente avversi”, non fa che aggiungere un granello di sabbia affinché questa nube tossica, definita ad errore “Guerra delle Civiltà”, che coinvolge ora il mondo e avvelena la vita con minacce e paure, sia disattivata. L’esistenza di luoghi come questo Museo è una nuova porta che si apre alla speranza.
Indirizzo del Museo:
Musée du Judaïsme Marocain
Rue Chasseur Jules Gros, 81
barrio Oasis (Casablanca)
Add Comment