Di Zouhir Louassini. L’Osservatore Romano – settimanale (20/12/2018).
Voglio raccontare due storie provenienti da due paesi arabi diversi: Egitto e Giordania. La prima è quella dell’egiziana Dalia Ehab: una giovane musulmana, col velo, che avrebbe potuto fare il medico, vista la laurea in medicina; e invece ha deciso di dedicarsi alla musica e oggi fa la cantante. Insieme a un gruppo di altri giovani si è messa ad arrangiare, modernizzandolo, un repertorio di canzoni tradizionali.
La dottoressa col ritmo nel sangue non è (ancora) molto famosa; ma è soddisfatta della sua scelta, anche se il successo di altri cantanti conosciuti nel mondo arabo o di quelli che hanno invaso addirittura il mercato internazionale è un orizzonte lontano. Dalia non ha nemmeno una grande casa discografica che sostenga e promuova la sua musica. Per il momento esiste solo nel mondo virtuale, dove tutti possiamo ascoltare la sua voce angelica.
Questa sarebbe una storia del tutto ordinaria se non fosse per un fatto singolare: Dalia è la prima e per il momento l’unica musulmana che gira le chiese copte del suo paese per intonare canti cristiani. Lei insiste, ogni volta che qualcuno le chiede il perché di questa scelta: «Amo la musica sacra e adoro Maryam al-Adhra’ (la Vergine Maria)». Una risposta semplice che nessun radicale o fanatico islamico riuscirà mai a capire. I loro capi, fermi nel tempo come statue di sale, continuano ad alzare la voce contro i copti e a riempire la rete di odio con domande del tipo: si può salutare un cristiano?
L’altra storia viene dalla Giordania e, benché totalmente diversa dalla prima, offre un’ulteriore conferma della complessità di una realtà, quella islamica, che i media occidentali continuano a presentare come un mondo in bianco e nero. Lo scorso 10 dicembre, ad Amman, due giornalisti sono stati arrestati e incarcerati per aver pubblicato un’immagine ritenuta offensiva dalla comunità cristiana in Giordania. La pubblicazione ha provocato una vivace polemica soprattutto sui social, in particolare nella comunità cristiana, che rappresenta il 6 per cento degli oltre 6 milioni di abitanti. In tre giorni, sono stati archiviati più di 200 reclami.
Le autorità giordane hanno arrestato l’editore e un caporedattore. Alla base del fermo l’accusa di aver fomentato l’odio e le divisioni confessionali. I due rischiano da sei mesi a un massimo di tre anni di prigione. Il Consiglio giordano delle Chiese, in seguito al provvedimento, ha chiesto “perdono” e “compassione” e perorato il rilascio dei due giornalisti presso il pubblico ministero che, vista la richiesta della parte lesa, ha infine disposto il rilascio dei due cronisti, ora in libertà vigilata.
Non voglio entrare in nessun modo nel vivace dibattito sulla libertà di espressione sorto in Giordania intorno a questo episodio. Però questo caso ci permette di notare, ancora una volta, quanto sia complesso e non uniforme il mondo islamico. È la semplice cronaca a dimostrarlo: in Giordania, piccolo paese a maggioranza musulmana, due giornalisti rischiano la prigione perché hanno offeso la minoranza cristiana.
Forse le mie storie non meritano le prime pagine dei giornali. Ma raccontarle può servire a spiegare meglio l’eterogeneità della realtà islamica. Sono briciole, granelli di sabbia che — alla lunga — possono far inceppare il meccanismo della semplificazione, che permette ai media occidentali di continuare a presentare un miliardo di musulmani come un blocco unico e uniforme, più simile al monolite di Kubrick, imperturbabile e freddo nello spazio, che a una comunità fatta di esseri umani, teste e cuori tutti diversi fra loro.