Di Francisco Peregil. El País (20/10/2016). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo.
Cinque anni fa, Muammar Gheddafi fu colpito da un attacco NATO mentre tentava di evitare l’assedio di Sirte. Fu immediatamente sequestrato e ucciso dalle milizie di Misurata. Cinque anni dopo, il panorama libico è atroce. La comunità internazionale guarda impotente il dissolversi del Governo di Unità Nazionale annunciato in Marocco nel dicembre 2015. Gli sforzi della diplomazia per conciliare le parti in conflitto sono inutili.
“Possiamo anche parlare di islamisti e anti-islamisti, ma la vera battaglia in Libia è solo per il potere e il denaro”, commenta un osservatore europeo. Ogni anno lasciano il paese circa 150.000 migranti, disposti a rischiare la vita attraversando il Mediterraneo. Il petrolio è ancora la principale fonte di reddito, ma la produzione è scesa di un quinto rispetto al 2011. Oggi 180.000 persone necessitano aiuti internazionali e sono 400.000 gli sfollati. Tutte le parti in conflitto hanno commesso crimini di guerra, secondo Amnesty International.
La Libia conta oggi con diversi centri di potere – vediamo quali sono:
Tripoli. Capitale della Libia e sede del Consiglio Presidenziale del Governo di Accordo Nazionale (NGA), organo di nove membri sostenuto dall’ONU e capeggiato dal primo ministro Fayez al-Sarraj. Per molti libici la sua esistenza è irrilevante e l’influenza di Sarraj è davvero scarsa. Il vero potere della città è ripartito tra più di 50 milizie e ogni quartiere ha il suo centro di controllo. Nei suoi sette mesi al comando, Sarraj ha compiuto molti viaggi all’estero, ma mai nell’est del paese, dove risiede la Camera dei Rappresentanti (HoR) di Tobruk, che non riconosce l’autorità del primo ministro tripolino.
Lo scorso venerdì, Khalifa al-Ghawil, ex premier del vecchio Governo si Salvezza Nazionale di matrice islamista, ha preso il controllo dell’Hotel Rixos, sede del Consiglio Presidenziale, dichiarando lo stato di emergenza. Colpo di Stato su carta, è difficile parlare di golpe dove uno Stato non c’è. Ad oggi, Ghawil è l’inquilino più potente del Rixos e la capitale è ancora più divisa, con milizie che cambiano fazione a seconda del miglior offerente. I cittadini di Tripoli si lamentano dei frequenti sequestri, dei balckout, dei tagli alla fornitura di acqua, dell’inflazione e dell’assenza di liquidità.
Misurata. Varie milizie si dividono il potere di questa città-Stato, milizie leali al Consiglio Presidenziale. Qui la situazione è più sicura che nella capitale, ma cinque anni di scontri hanno cambiato il volto di Misurata: la maggior parte degli edifici distrutti durante la guerra contro Gheddafi sono ancora in macerie e gli ospedali a malapena ce la fanno ad accogliere i feriti che arrivano dal fronte di Sirte.
Sirte. Città natale di Gheddafi, Daesh (ISIS) l’ha strappato di mano alle milizie di Misurata all’inizio del 2015. Da allora, l’organizzazione estremista ha esteso la sua influenza fino a controllare Abu Grein, a meno di un’ora da Misurata. Verso la fine dello scorso maggio, le milizie di Misurata hanno iniziato l’assedio di Sirte, riuscendo a riprendere il controllo del porto dopo tre settimane. Tuttavia, Daesh resiste ancora al centro della città, nonostante le milizie godano dell’appoggio aereo USA.
Tobruk e Beida (Al-Baida). Queste due città della Libia orientale, vicine al confine con l’Egitto, sono la sede dell’HoR da quando nel 2014 i suoi deputati furono costretti all’esilio dopo essere stati espulsi dalle guerriglie islamiste, unite sotto il nome di Fajr Libia (Alba Libia). Oggi, l’uomo forte di Tobruk è Khalifa Haftar, capo dell’Esercito di Liberazione Nazionale autoproclamato. Sostenuto da Egitto e Emirati, a settembre Haftar ha strappato dalle mani di Tripoli quattro dei principali porti petroliferi del paese.
Bengasi. Città culla della rivoluzione libica, da cinque anni è vittima della lotta tra le truppe del generale Haftar e i gruppi jihadisti. A fine settembre, un comunicato di Amnesty International esortava la creazione di un corridoio umanitario per salvare le centinata di civili intrappolati nel quartiere di Ganfuda: “Mentre le bombe continuano a cadere su di loro, lottano per la sopravvivenza con cibo marcio e acqua sporca”.
Francisco Peregil è un giornalista spagnolo, corrispondete di El País nel Maghreb.
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