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Libano: un nuovo muro per i rifugiati palestinesi?

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Se la recente crisi dei rifugiati ha insegnato qualcosa al mondo è che, in quanto esseri umani, siamo tutti vulnerabili ai cambiamenti politici, ambientali e culturali, e la nostra vita può cambiare in pochi giorni.

di Yara Al-Wazir. Al-Arabiya (29/11/2016). Traduzione e sintesi di Emanuela Barbieri.

Mentre il mondo celebrava la giornata internazionale di solidarietà per il popolo Palestinese il 25 novembre, migliaia di rifugiati palestinesi del campo di Ain al-Hilweh in Libano sentivano aumentare il senso di ansietà per il loro futuro. Le autorità libanesi, infatti, per “ragioni di sicurezza”, hanno iniziato a costruire un muro nella parte occidentale del campo, la casa di 70 mila profughi.

Occorre stare attenti sulle possibili implicazioni riguardo la percezione in Libano e nel mondo della comunità dei rifugiati. La comunità palestinese in Libano è costituita principalmente dai discendenti dei rifugiati della diaspora del 1948. In totale sono 450 mila registrati in libano, il 10% della popolazione del paese, secondo le Nazioni Unite. Definire una comunità di 70 mila persone come una “minaccia per la sicurezza”, è un pericoloso messaggio al pubblico. Questo muro farà sentire ancora più alienata la popolazione dei rifugiati e giustificherà al pubblico ogni sentimento negativo che possa derivarne.
Importante chiedersi, qual è la vera ragione dietro la costruzione del muro, i palestinesi sono davvero sentiti come una tale minaccia per la sicurezza da essere emarginati e imprigionati in una struttura concreta? Come sarà finanziato il muro e quali benefici porterà ai palestinesi del campo o a quelli fuori dal campo? Le risposte a queste domande non sono chiare e poche sono state le dichiarazioni a riguardo. Ciò che è certo è che questo gesto provocherà la rabbia e la frustrazione di 70 mila persone e può essere la ragione per cui i lavori sono stati interrotti.

È comprensibile che l’esercito libanese stia cercando di mantenere la sicurezza all’interno del campo; in fondo, è il loro lavoro. È giunto il momento però per le autorità di smettere di usare la parola “sicurezza” come giustificazione per la volontà di emarginare la comunità di rifugiati – costruire muri non risolverà i problemi, solo la costruzione di ponti può farlo. Senza un comunicato ufficiale che spieghi lo scopo di questo muro e il motivo per cui i lavori sono stati fermati, anche se non si riprenderanno e, se riprenderanno, quando, i palestinesi all’interno del campo di Ain al-Hilweh e gli altri 11 campi profughi nel paese non possono essere biasimati per la loro ansia, rabbia e senso di alienazione.

Mettendo la politica da parte – come sarà il mondo per i rifugiati nel 2030? Mentre il mondo trascende nella “sharing economy“, sembra che le persone vogliano condividere i servizi, ma non le responsabilità.

Guardando indietro di appena dieci anni, chi avrebbe mai immaginato che ci sarebbero stati più di 10 milioni di profughi siriani sparsi per il mondo? Se la recente crisi dei rifugiati ha insegnato qualcosa al mondo è che, in quanto esseri umani, siamo tutti vulnerabili ai cambiamenti politici, ambientali e culturali, e la nostra vita può cambiare in pochi giorni. Sempre più spesso, si sente che i paesi ospitanti trattano gli individui come minacce, piuttosto che mettere in discussione il sistema che li ha disumanizzati e resi di fatto rifugiati.

Quando l’intera popolazione di un campo viene riconosciuta come una potenziale minaccia alla sicurezza dallo stato, questo si deve chiedere perché non ha fatto nulla per contenere questa minaccia prima, cosa ha reso questa parte della popolazione una minaccia per la sicurezza (70.000 persone è un numero incredibilmente grande), e se ci sono modi più efficaci per affrontare la situazione che non costruire un muro. Forse andare alla radice delle minacce, comprendere le motivazioni, fornire opportunità di istruzione e di distrazione e offrire un modo per contribuire positivamente all’economia sarebbe un mezzo molto più efficace nella lotta contro potenziali minacce alla sicurezza di un muro di cemento. Senza andare alla radice del perché le persone sono arrabbiate costruendo pareti di alienazione, sarà solo un modo di provocare le persone ulteriormente e fomentare i sentimenti più negativi che impediranno lo sviluppo.

Yara al Wazir è un attivista umanitaria. È il fondatore dell’iniziativa verde ME e un partner di sviluppo di Sharek Stories.

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