Intervista di Katia Cerratti
Era bella Beirut, elegante, colta, carismatica, diversa dalle altre città del Medio Oriente. Si è piegata, per ben sette volte è stata ricostruita, ma non si è mai spezzata. Crisi economica e sociale, conflitti interni, continue crisi tra Hezbollah e Israele, l’hanno tenuta in ostaggio per anni ma il popolo non si è mai arreso, il popolo aveva ben compreso che a tenerla prigioniera, prima di tutto, è stata gran parte della classe dirigente che, anziché proteggerla, valorizzarla, amarla, nel corso degli anni l’ha spolpata attraverso la corruzione, il clientelismo, la brama di denaro, denaro dei libanesi, quel denaro che a sua volta, ora, è ostaggio delle banche e i legittimi proprietari non possono accedervi. Così, con le ultime forze rimaste, i libanesi, il 17 ottobre 2019 sono scesi in piazza al grido di “thawra”, rivoluzione, ma è durata poco, soffocata dalla pandemia e dalla stanchezza. Poi, il 4 agosto, il colpo di grazia. Il buio, i morti, la disperazione di chi ha perso tutto per un’esplosione che ha spazzato via le ultime forze, gli ultimi sogni di rinascita di un popolo che non ce la fa più. Beirut, il Libano, subivano l’ennesimo abuso che si aggiunge al lungo elenco di quelli subiti dalla guerra civile in poi.
Per capire lo scenario attuale e cosa accadrà in futuro, è necessaria un’accurata analisi che tenga conto anche, e forse soprattutto, del passato della Terra dei cedri. Camille Eid, giornalista e scrittore libanese, da tanti in anni in Italia, in questa intervista ad Arabpress, ci aiuta a capire quali dinamiche hanno condotto il Libano a un punto di non ritorno.
Quali potranno essere le ripercussioni politiche di questo disastro?
Al di là delle diverse ipotesi sulla natura del disastro – effetto di negligenza, uso improprio di un deposito da parte di Hezbollah, attacco esterno – le ripercussioni politiche ci saranno nell’immediato. Nonostante il governo abbia proclamato lo stato di emergenza per due settimane affidando la sicurezza di Beirut all’esercito, la gente ha deciso di tornare a protestare in piazza per reclamare giustizia, scontrandosi qua e là con le forze dell’ordine. Nei giorni scorsi, abbiamo assistito alle dimissioni di alcuni ministri e deputati in segno di sfiducia verso un potere incapace. Sul fronte internazionale, e nonostante molti Paesi arabi e occidentali siano accorsi ad aiutare il Libano, non bisogna considerare questo fatto come un aiuto al governo attuale, bensì un gesto di solidarietà con il popolo libanese, che conta ora 300 mila persone senza casa. Credo che le pressioni internazionali verso un cambiamento, e che abbiamo visto nella visita del presidente francese Macron, avranno nei prossimi giorni dei risultati. Altrimenti il Libano è destinato a morire proprio nel momento in cui si appresta a celebrare il centenario della sua fondazione.
Se l’esplosione ha distrutto quasi tutta la città, ancora prima il Libano è stato distrutto dalla classe politica che lo ha condotto verso il baratro. Quali sono stati gli errori più gravi della classe dirigente e perché non sono state attuate le riforme?
Ci vuole molto tempo per elencare tutti gli errori. A cominciare da un sistema confessionale che assomiglia sempre più a una ripartizione della torta tra poche famiglie, pochi clan politici, che hanno travisato il senso originale di tale sistema, ossia quella di garantire la partecipazione di tutte le componenti della società libanese alla cosa pubblica. Piano piano ci siamo così incamminati verso una fissazione di alcune cariche in mano a determinate comunità religiose, anziché avere una rotazione. Questo sistema ha prodotto un clientelismo, che a sua volta ha generato una corruzione senza limiti. Sempre in campo politico, le famiglie politiche hanno creato delle dinastie, per cui vediamo che anche all’interno di partiti di sinistra, la successione alla guida del partito avviene di padre in figlio, nonostante la presenza di elementi migliori. Passando all’economia, pochi individui – spesso dei politici o legati a politici – detengono oltre la metà dei capitali e degli interessi del Paese: dalle banche ai monopoli del petrolio e del gas. La politica economica dei governi che si sono succeduti al potere nel post-guerra, ossia negli ultimi 30 anni, è stata disastrosa, perché ha portato a un indebitamento eccessivo con il pretesto della ricostruzione, tanto che siamo arrivati al default lo scorso marzo, con lo Stato che non era più in grado di pagare nemmeno gli interessi di oltre 100miliardi di dollari. Senza dimenticare che i “signori” che ci governano hanno attinto in tutti questi anni ai soldi dei correntisti, persino a quelli che pensavano di “proteggersi” aprendo dei conti in dollari per evitare la svalutazione della lira libanese. Diventa facile intuire i motivi per i quali le riforme necessarie non sono state mai applicate.
Gli effetti di questa politica economica si ripercuotono ora sulla popolazione colpita?
Certamente. Tutta le famiglie che hanno subito danni non possono accedere liberamente ai loro risparmi perché le banche impongono limitazioni sui prelievi e applicano un tasso di cambio dollaro/lira diverso da quello effettivo. La rapida svalutazione della valuta nazionale ha ridotto il popolo alla fame, perché se fino a pochi mesi fa uno poteva riempire un carrello con 100mila lire libanesi, adesso non ti basta nemmeno la metà dello stipendio. Uno si trovava in difficoltà per cambiare la batteria della macchina oppure sostituire la gomma, figuriamoci la riparazione di una casa o di un negozio. Il Libano, purtroppo, è diventato un Paese invivibile, uno Stato fallito. E uno Stato fallito, non può rinascere con la stessa classe politica che ha provocato la sua rovina. È per questo motivo che molti Paesi chiedono al governo libanese di cambiare politica per poterlo aiutare. Capisco che il Fondo Monetario Internazionale pone delle condizioni severe, indicando ad esempio la necessità di aumentare l’iva oppure togliere le sovvenzioni statali ad alcuni prodotti, come la benzina. Ma il punto è che noi avremmo dovuto fare il lavoro prima. Senza dimenticare che la metà del nostro debito è finito nelle tasche dei politici piuttosto che in progetti produttivi, mentre altri miliardi sono stati trafugati in Svizzera o nei paradisi fiscali. Quindi, o recuperiamo tutti questi soldi intascati in maniera illecita o continueremo a pagare noi il prezzo.
Ma è fattibile una cosa del genere?
È possibile, ma con la collaborazione internazionale. Ci sono delle prove tangibili su tutti gli arricchimenti illeciti. Intanto, e per evitare gli errori de passato, è necessario che gli eventuali nuovi aiuti che serviranno nei prossimi mesi non arrivino al governo attuale. Il patriarca maronita ha reclamato la creazione di un fondo gestito dalle Nazioni Unite, e una proposta simile ha lanciato Macron alla conferenza dei Paesi donatori tenutasi sabato. Abbiamo una classe politica non affidabile in materia di soldi. Non nego qui le colpe dei libanesi che hanno eletto simili personaggi per rappresentarli. Prima era facile scaricare la colpa sui siriani, sugli israeliani, ma ora non possiamo negare la nostra responsabilità.
Tutti i partiti sono quindi corrotti?
In un certo senso, sì. Ci sono quelli che hanno rubato senza vergogna, e altri che hanno chiuso un occhio in cambio di altri interessi. Alla fine, sono complici tutti quanti. Il partito del generale Aoun, che ha criticato per anni questo andamento delle cose e si proponeva per il cambiamento e le riforme, una volta entrato nei governi è finito per comportarsi un po’ come gli altri. Chi sapeva e non ha denunciato è complice, e quindi è anch’egli responsabile dell’attuale situazione disastrosa. Come è possibile che l’attuale governo di Hassane Diab non abbia portato in carcere nessun uomo politico, nessun funzionario pubblico? Il popolo vuole vedere i responsabili comparire davanti alla giustizia. Abbiamo molta gente competente, capace di dare un’altra immagine del Libano al mondo, però sono sempre impediti di arrivare molto in alto.
C’è ancora speranza di risanare questo Paese?
Certamente, ma – come dicevo prima – chi ha portato il Libano al baratro non può assumere il compito di sanarlo. Quindi, cerchiamo di rifare tutto, attraverso nuove elezioni legislative capaci di produrre un nuovo Parlamento meno infeudato alle attuali forze politiche. Non sarà facile liberarsi da subito del sistema confessionale, ma si può tentare – nel prossimo futuro – una sorte di rotazione tra le prime tre presidenze di modo che nessuna della comunità si senta minacciata nella sua esistenza. Possiamo anche cominciare per eliminare le distinzioni all’interno dei due grandi gruppi religiosi (cristiani e musulmani) senza attenerci alle divisioni interne tra maroniti, melchiti e ortodossi, oppure tra sunniti, sciiti e drusi. Ci sono mille idee per iniziare a cambiare verso uno Stato civile. L’importante è iniziare.
Ha fatto più danni l’occupazione siriana o la classe politica libanese?
Rispondo con una domanda: fa più male il torto subito da un fratello o dal vicino di casa? I siriani hanno fatto quello che pensavano – a torto – essere nell’interesse della Siria, di mungere la vacca libanese. In questo lavoro, purtroppo, i nostri politici si sono dimostrati molto più avidi.
Camille Eid è nato a Beirut, si è trasferito durante la guerra libanese in Italia dove collabora con varie testate cattoliche. Ha al suo attivo oltre tremila articoli, interviste e reportage sul mondo arabo, le comunità cristiane orientali e l’islam politico. È autore (o co-autore) di otto libri, alcuni dei quali tradotti in altre lingue, tra cui il bestseller Cento domande sull’islam (Marietti, 2002). Ha insegnato Lingua araba presso l’Università Bicocca e l’Università Cattolica del Sacro Cuore. A Milano dirige l’Associazione Araba Fenice, Centro studi sulle culture del mondo arabo.
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