R. Focus on Syria (22/01/14). Traduzione e sintesi di Alessandra Cimarosti.
Miei carissimi amici,
ora ho superato la fase del “un anno in un unico posto”, che per me è una vittoria. A novembre ho festeggiato un anno a Beirut che è la capitale del Libano e non della Libia o della Liberia – voi ridete, ma non tutti lo sanno. Una città complessa e conflittuale. Se Beirut fosse stata una persona, l’avrei descritta come un po’ passiva-aggressiva, ma con un grande fascino e sicuramente bella da vedere.
La guerra in Siria continua con forza, con sempre meno opzioni per porre fine alla crisi. Ho l’impressione di ripetere questa frase all’infinito. Mi chiedo quante altre volte ancora la pronuncerò?
I corpi si ammassano, i mortai piovono, fiumi di persone attraversano le frontiere per trovare un qualcosa che ricordi la sicurezza, per poi scoprire di non essere ben accetti dall’altra parte. E i bambini, tanti bambini. Bei bambini, ognuno dei quali è un mondo di possibilità potenzialmente perso perché il suo futuro sembra sempre più lugubre.
Vedo tanti miei amici diventare ossessionati a causa della guerra, intrappolati nella spirale senza fine della retorica politica, di conversioni al vetriolo, di accuse, di odio che ribolle all’interno di ogni persona. L’assenza della speranza è il piatto del giorno, servita calda con l’ultima conta dei morti. E chi sono io per giudicare? Come posso dire al mio amico al quale è stato torturato il cugino di 12 anni di non sprofondare nell’amarezza?
Le feste a Beirut finiscono in combattimenti di strada. La gente grida quale “parte” dovresti sostenere; insulti, calci, pugni, come se ciò potesse cancellare il dolore, i lutti e la sofferenza. Ciò non ci riporterà i morti, questo è sicuro. Ma forse è tutto quello che ci resta. E se questa non è aggressività, allora è tristezza. Le vecchie canzoni arabe, le emozionanti voci di Sabah Fakhri, Oum Kalthoum o Fayrouz e degli uomini che fondono lacrime dopo il loro nono bicchiere di arak.
Tutto ciò sembra buio e tortuoso, ma è ciò che vive la gente ogni giorno. Sorridiamo, ridiamo, continuiamo ad amare coloro che amiamo – ancora più di prima. Non utilizziamo più l’espressione “è la vita”, ma piuttosto diciamo “è la guerra”, per spiegare le tragedie quotidiane che ci assillano, le scelte irrazionali prese a volte, la stupidità che ci tiene sotto controllo. In questa guerra, ognuno conduce la sua piccola battaglia.
Ma la battaglia quotidiana più difficile è la compassione. È difficile trovare ogni giorno la compassione richiesta. A volte ho voglia di gridare “mi dispiace ma non posso aiutarvi tutti!”. Mi vergogno a dirlo, ma a volte evito di percorrere certe strade per non vederli.
In Libano non si può scappare dalla Siria. E anche se si gira la testa, lei rimane lì: sulla soglia della porta, di fianco al ristorante di kebab, tra le donne che vivono sotto i ponti, tra gli uomini che elemosinano lavoro.
Ma non è tutto negativo. Come ho già detto, Beirut ha il suo fascino. La lunga corniche che si estende per km lungo il Mediterraneo è una delle arterie principali per le interazioni sociali. Ci sono persone che fanno del loro meglio per colmare la distanza tra la vita che (i siriani) hanno lasciato in Siria e il futuro incerto che gli si presenta. Ci sono dei libanesi che aprono le loro braccia ai siriani e che li accolgono con simpatia e comprensione per quello che hanno perduto.
Ma adesso, nel bene o nel male, tutto è alle mie spalle, sono a casa, lontana dal caos. Le piogge d’estate mi calmano, mi disturbano solo le ranocchie, i grilli e i sospiri della notte. La cessazione improvvisa di ogni attività – senza stress e lavoro – mi ha lasciata un po’ perduta. La noia mi bracca. Uno strano nuovo ritmo al quale abituarsi. Guardando i mesi che verranno, mi domando come farò senza tutta l’agitazione di Beirut. In qualche modo, incagliata in un posto sicuro.
E con ciò spingo via il 2013. Al mio ritorno a Beirut. Al mio ricongiungimento nel 2014 con chi di voi non vedo da un po’.
Amici,
R.