Le possibili conseguenze della ripresa di Palmira da parte del regime siriano

Di Louis Imbert e Madjid Zerrouky. Le Monde.fr (25/03/2016). Traduzione e sintesi di Ismahan Hassen.

Appena completato, senza grandi risultati, il ciclo di negoziati a Ginevra, venerdì 25 marzo le forze siriane sembravano essere sul punto di riprendere la città di Palmira dalle forze del sedicente Stato Islamico che la occupa da quasi un anno. In una città dove la distruzione di un importante patrimonio archeologico ha scosso l’opinione pubblica occidentale, l’esercito siriano è supportato da Hezbollah e da un gruppo afghano della Guardia Rivoluzionaria iraniana. Lanciata solo poche settimane, l’offensiva del governo si è accelerata bruscamente negli ultimi giorni, arrivando a colpire fino a 146 obiettivi di Daesh (ISIS) in ​​prossimità di Palmira, causando l’evacuazione della città, secondo quanto riferito dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani.

La presa della città nel maggio 2015, dopo una dura disfatta dell’esercito siriano, aveva evidenziato l’inadeguatezza con cui le forze governative stavano rispondendo all’avanzata Daesh, ritirandosi poi su tutti i fronti e dando vita alla speculazione su un possibile crollo del regime Bashar al-Assad.

Rafforzate dalla presenza in campo delle forze militari russe, manifestatasi sei mesi fa, e da un afflusso di miliziani sciiti organizzate da Iran, le milizie governative e quindi la longa manus del presidente siriano, hanno voluto ora tornare a Palmira gloriosamente. Presentandosi come il liberatore del sito dell’antichità romana, che Daesh ha distrutto pezzo per pezzo nel corso della primavera e dell’estate scorsa, Bashar al-Assad ha scioccato non poco l’opinione pubblica occidentale.

Giovedì scorso, il direttore dei Musei e delle Antichità in Siria, Maamoun Abdulkarim, nel definire la portata dell’evento della liberazione della città dall’occupazione di Daesh, ha dichiarato che la battaglia di Palmira è stata “una battaglia culturale per il mondo e per tutti coloro che credono in un patrimonio comune dell’umanità”. Oltre a ciò però, egli non ha fatto menzione del fatto che anche l’esercito siriano ha avuto la sua parte di responsabilità nella distruzione dell’antico sito, quando ancora aveva il controllo della città.

Riprendere in mano la città di Palmira, permette al regime, che si presenta come l’unica forza in grado di combattere contro i jihadisti, di progredire più ad est nel deserto siriano, verso il confine con l’Iraq, controllato a tutto tondo dalle milizie di Daesh. Ciò aprirebbe la strada a Deir ez-Zor, dove un presidio del governo è assediato da Daesh e non è più rifornito via aerea, e alla strada per Raqqa, la “capitale” del califfato in Siria, cui le forze curde si avvicinano da nord. Avanzando verso Deir ez-Zor, il piano sarebbe anche privare l’IS dei giacimenti di gas e olio, per arrivare a mettere in crisi la loro strategia di autosufficienza energetica.

Nel frattempo, i negoziatori di Damasco stavano trascinando i negoziati di pace inter-siriani, aperti il 14 marzo a Ginevra e conclusi giovedì scorso. I colloqui si erano naufragati sul rifiuto della delegazione del governo di entrare in discussioni sulla transizione politica, che considera prematuro. Questa transizione è prevista dalla risoluzione 2254 delle Nazioni Unite, adottata nel dicembre 2015.

Giovedì, il segretario di Stato americano, John Kerry, ha incontrato a Mosca il suo omologo russo Sergei Lavrov e il presidente Vladimir Putin. Kerry ha annunciato di aver concordato con il presidente russo al fine di “influenzare il regime di Damasco e l’opposizione” per “promuovere” transizione politica “per porre fine al nero capitolo della guerra”.

Louis Imbert e Madjid Zerrouky collaborano con la versione online del quotidiano francese d’informazione Le Monde.

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