Trump ha aperto il gioco uccidendo il generale Suleimani in Iraq. L’attacco dell’Iran contro due basi americane – ancora in Iraq – è stata la risposta misurata da parte di un regime che non può e non vuole perdere la faccia davanti alla propria gente.
L’analisi di Zouhir Louassini da www.rainews.it
Nella politica internazionale non c’è spazio per l’ingenuità. La solita retorica antiamericana che ha impregnato il discorso della Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, nella preghiera del venerdì a Teheran, non riesce a nascondere le difficoltà del regime iraniano dopo la decisione americana di uccidere il generale Qassem Suleimani, uno degli uomini più potenti del Medio Oriente. Khamenei parla “del potere iraniano di schiaffeggiare un arrogante” come gli Stati Uniti presentando la risposta iraniana come la “dimostrazione che Dio ci sostiene”.
È ovvio: lo fa per il consumo interno. Perché i fatti attestano una realtà totalmente diversa: 50 morti tra i manifestanti iraniani, schiacciati durante il funerale di Suleimani; ai quali si aggiungono i 176 morti del Boeing ucraino, abbattuto per mano dei guardiani della rivoluzione. La risposta iraniana, più simbolica che altro, ha causato il ferimento di 11 soldati americani e qualche danno materiale nelle basi USA in Iraq. La tensione “calcolata” tra una potenza mondiale e una regionale non poteva finire diversamente. Qualsiasi altra conclusione risponde solo a logiche di schieramento, da tifosi; o a visioni ideologiche per le quali le risposte anticipano le domande. Le leggi internazionali hanno sempre rispettato le ragioni del più forte. Tutto quello che abbiamo visto nelle ultime settimane è stato solo la conferma di questa regola.
Le parole della Guida suprema si leggono, così, come parte di un “dialogo” continuo tra due avversari che si tengono d’occhio l’un l’altro. La loro reazione è sempre nei limiti di un copione ben scritto, perché nessuno degli attori vuole improvvisare. Uccidere il generale Suleimani in Iraq – non in Iran – è stata la prima battuta. L’attacco dell’Iran contro due basi americane – ancora in Iraq – è stata la risposta misurata da parte di un regime che non può e non vuole perdere la faccia davanti alla propria gente. Uccidendo lo stratega iraniano, il presidente Trump ha deciso di colpire duro per segnare i limiti tra ciò che quel dialogo può o non può includere: no all’uccisione di un interprete statunitense in un attacco missilistico alla base iracho-americana a Kirkuk; e, soprattutto, no all’assedio dell’ambasciata americana di Baghdad. Azioni compiuti entrambe da milizie irachene sciite molto vicine all’Iran.
Quando il Professor Robert Jervis, uno degli osservatori più attenti ai conflitti tra gli stati, scrive su War on the Rocks che dopo quello che è successo nelle ultimi due settimane “né il presidente Trump né gli iraniani sanno cosa fare ora”, descrive una situazione di incertezza che non risponde ai fatti.
Nel Medio Oriente, fino a prova contraria, sono gli americani ad avere l’iniziativa. Agli iraniani rimane “l’onore di resistere”. La ben nota tesi secondo la quale i “nemici dell’Occidente” sarebbero “forti e pericolosi” è un dejà-vu che la storia recente ha smentito. Ricordiamoci la fine dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein e quella del libico Gheddafi. Presentati come grandi avventurieri che mettevano a rischio la pace mondiale, alla fine si è capito che erano solo delle tigri di carta.
La leadership in Iran è cosciente di questo fatto e si comporta in conseguenza. Per armarsi bene ha bisogno di tempo. L’esercito iraniano è pronto per le piccole battaglie regionali ma non lo è per una vera guerra contro gli Stati Uniti. Trump lo sa benissimo: colpisce nel momento giusto e nel posto giusto, rendendo chiaro a tutti chi è che comanda nella regione. In fondo basta dare un’occhiata alla mappa per rendersi conto che l’Iran è circondato dalla presenza americana: 54mila soldati in una dozzina di Paesi del Medio Oriente, con basi militari in sette di essi.
Non è casuale che la prima frase detta dalla guida spirituale iraniana dopo l’uccisione di Suleimani sia stato il consueto refrain: “la presenza americana nella regione deve finire”. Tuttavia nulla sembra indicare che gli Stati Uniti vogliano abbandonare una zona, come quella mediorientale, di così grande importanza strategica. Khamenei ha definito Trump un “clown”, nel suo sermone; ma non sarebbe sbagliato – senza che ciò suoni come un giudizio morale – considerare la decisione del presidente di eliminare il generale Soleimani, come la rivelazione di una ambivalenza strategica che segnerà “un prima e un dopo” nei conflitti che affliggono il Medio Oriente.
In assenza di avvertimenti, negli ultimi mesi gli iraniani avevano incrementato il loro vantaggio colpendo le installazioni petrolifere saudite, prendendo in ostaggio le navi nello stretto di Hormuz e distruggendo i droni americani. La risposta di Trump ha solo ristabilito i rapporti di forza, per dare una spinta ad un “dialogo” che non ha fatto altro che iniziare.