La tirannia dell’opinione

giornalismo

L’Osservatore Romano (settimanale 30-08-2018).

È la logica di mercato: è più comodo dire alla gente quanto vuole sentire che raccontare i fatti così come sono. Ma un’informazione che soggiace a questo meccanismo finisce per alterare la percezione del pubblico che, giorno dopo giorno, coincide sempre meno con la realtà dei fatti. Una situazione tragica, per chi fa informazione. Bisogna invece armarsi di coraggio e dire basta a chi, per raccogliere voti, è capace di sfruttare il clima d’odio che non ha mai smesso di alimentare.

I sondaggi d’opinione di EuroStat hanno per esempio dimostrato varie volte che, nella percezione della gente, il numero degli immigrati è largamente sovrastimato: il doppio o addirittura il triplo delle cifre ufficiali. Questo fa sì che molte persone vivano l’arrivo di migranti in fuga da guerra o fame (o da entrambe), come una minaccia.

Invece, le cifre ufficiali non convincono più nessuno, attestando la tradizionale e ben radicata mancanza di fiducia nelle istituzioni. Un sentimento che è il risultato di politiche prive del necessario equilibrio tra le regole di un mercato feroce e il bisogno di mantenere un minimo di giustizia sociale. Il populismo, alla fine, è solo la più evidente conseguenza di scelte economiche sbagliate, che non hanno mai considerato gli esseri umani come una priorità.

In questa situazione di piena confusione il giornalismo attento può essere l’ultimo baluardo della democrazia occidentale, che sembra indebolita e stanca. La colpa è anche di chi — purtroppo una ben remunerata schiera — ha preferito servire il potere invece di limitarsi a raccontare i fatti. Hannah Arendt ripeteva spesso che «senza un’informazione basata sui fatti e non manipolata, la libertà d’opinione diventa una beffa crudele». Un avvertimento che torna utilissimo quando, come oggi, si osserva il progressivo mutamento dell’informazione nei paesi democratici, dove si restringe ogni giorno di più lo spazio per un dibattito aperto.

Prevale su tutto, infatti, la propaganda: esprimersi per slogan, dimenticare volontariamente alcuni dettagli e ingrandirne altri; distorcere certi fatti; ripetere instancabilmente le idee principali. Amplificare semplificando: così si crea l’illusione di unanimità, che è un altro obbiettivo della cultura mediatica dominante volto a emarginare tutte le voci dissenzienti.

Proprio la formazione di un’opinione dominante fu descritta da Tocqueville come uno dei più importanti vizi naturali delle società democratiche: l’instaurazione di una tirannia dell’opinione. In fondo siamo di fronte a una nuova forma di censura in cui si autorizza la circolazione soltanto alle idee che coincidono con il clima generale. L’onda fatta da discorsi razzisti, espressioni fanatiche e parole d’odio sfrenato sta guadagnando terreno. Chiunque cerchi di affrontare questa deriva con fatti, cifre, razionalità viene zittito in malo modo. Una tendenza che mette in discussione principi e valori propri della democrazia stessa.

Un ritorno urgente ai fondamenti deontologici del giornalismo, spesso dimenticati, può essere la salvezza per una professione che voglia rimanere capace di interpretare e raccontare il presente, dando vita a un dibattito pubblico plurale e utile, indispensabile per una democrazia sana.

Il primo passo — e siamo all’abc — sarebbe stabilire una chiara differenza tra fatti e opinioni. Così il giornalista sarà più efficace nello sviluppo d’uno spirito critico capace di tenerlo lontano dallo scandalo, dal divertimento, dallo scoop facile. Basterebbe insomma tornare al principale ruolo del giornalismo in una democrazia compiuta: mediare il dibattito pubblico.

Zouhir Louassini. Giornalista Rai e editorialista L'Osservatore Romano. Dottore di ricerca in Studi Semitici (Università di Granada, Spagna). Visiting professor in varie università italiane e straniere. Ha collaborato con diversi quotidiani arabi tra cui al-Hayat, Lakome e al-Alam. Ha pubblicato vari articoli sul mondo arabo in giornali e riviste spagnole (El Pais, Ideas-Afkar). Ha pubblicato Qatl al-Arabi (Uccidere l’arabo) e Fi Ahdhan Condoleezza wa bidun khassaer fi al Arwah ("En brazos de Condoleezza pero sin bajas"), entrambi scritti in arabo e tradotti in spagnolo.

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