Di Soufiane Djilali, El-Watan (02/08/2015). Traduzione e sintesi di Alice Bondì.
Sulla scia della proposta di inserire la darija, il dialetto arabo, nel primo ciclo scolastico dei nostri figli, si è alzata un’ondata di proteste da parte chi pensa di avere il dovere di proteggere la sacralità della lingua araba. Al di là della polemica in corso, la scuola, in fin dei conti, è solamente un pretesto per dar voce ad una problematica molto più grave che ancora divide il Paese.
Se vogliamo preparare un avvenire più sereno per il nostro Paese, allora dobbiamo cominciare a comprendere la natura e l’origine dei nostri mali attuali. Tra le cause del malfunzionamento della nostra società, la questione identitaria assume una dimensione significativa. Il ruolo della religione e, soprattutto, il nostro rapporto con le lingue materne, ci spingono ad una riflessione, al di là della padronanza di una lingua o dell’altra, che riguarda il problema identitario.
Ora, per citare il titolo di una celebre saggio, le identità sono “meurtrières”. Abbiamo, in quanto nazione, una lingua che ci unisce, che traduce le nostre speranze e ci offre un mezzo per esprimere il nostro potenziale culturale? Per alcuni, la risposta è ambigua.
L’arabo, la lingua ufficiale, è usata poco, e male, dalla società. Eppure rimane come riferimento sacro. Il tamazight, la lingua berbera, con le sue numerose varianti, patrimonio fondante della personalità algerina, abitualmente non si scrive e non costituisce uno strumento efficace per lo sviluppo. Inoltre non è parlato da tutti. La darija è destrutturata, sincretica e piuttosto orale. Il francese, invece, è usato da un’ampia élite, ma porta con sé una carica emotiva negativa, per ovvie ragioni. Gli algerini, dunque, non sono contenti delle proprie lingue.
Se i difensori del tamazight si sono impegnati con entusiasmo per difendere questa lingua e sono stati, quindi, coerenti con loro stessi, questo non è il caso di quelli che parlano la darija e che tendono piuttosto a disprezzarla appena acquisiscono la padronanza dell’arabo classico o del francese. Ciò si traduce, in sostanza, un’immagine degradata di sé stessi, della propria lingua madre. Appena l’algerino ha la possibilità di accedere all’arabo accademico, categorizza la darija come una forma arcaica di espressione, che non merita nessuno riguardo, un’anomalia. La svalutazione del dialetto aumenta la frattura tra l’élite, che utilizza espressioni artificiose, e il popolo, molto più pragmatico, che ha soltanto bisogno di uno strumento per comunicare.
La storia di molti paesi, e naturalmente anche la nostra, ci insegna che l’oppressione e la negazione della lingua madre, ha della conseguenze disastrose sulla personalità e sul funzionamento della società. Il suo disconoscimento può comportare delle ferite impossibili da sanare. Non c’è nulla di più pericoloso del voler spezzare il cordone ombelicale che collega l’uomo alla sua lingua madre.
La posizione degli “arabisti” non è ragionevole. Il fatto di tirare in ballo sistematicamente la “sacralità” della lingua araba non è che un uso ideologico dell’islam, rivelato in lingua araba, ma per tutte le persone, qualunque sia la loro lingua.
Quindi, o siamo davanti ad una cecità sostenuta da posizioni ideologiche, oppure ad una grande ipocrisia per scopi politici. Ma dopo tutto, la daridja, il tamizight e l’arabo, sono comunque insufficienti per le esigenze di oggi. Per motivi pratici, il francese, ma anche l’inglese, lo spagnolo, il cinese, il russo o il tedesco dovranno essere insegnate in modo intensivo nelle scuole. Senza questo sforzo di apertura, non può essere raggiunto nessun risultato storico per il nostro Paese.
È giunto il momento di affrontare la questione dell’identitaria, che deve essere condotta in concerto con la classe politica, con la società civile e con il mondo accademico. È necessario consentire ad ogni cittadino di far coesistere in lui le diverse appartenenze linguistiche. La nostra società deve trovare nuovo equilibrio nei propri valori. Si deve ripristinare il suo centro di gravità psicologico e storico-sociale. Dobbiamo rivisitare la nostra storia antica, i nostri momenti epici, ma anche assumerci la responsabilità dei nostri errori.
Dopo il nazionalismo liberatore, l’Algeria ha bisogno di un neo-nazionalismo, portatore di una visione della società più fiduciosa in se stessa, culturalmente più incentrata sul Maghreb. Inoltre, il lavoro politico deve essere condotto in modo tale che i nostri concittadini arabofoni comprendano che questo non è in alcun modo un tentativo di designare un concorrente per la lingua del Corano, ma una fedele applicazione del suo insegnamento: “Tra i suoi segni, c’è stata la creazione dei cieli e della terra, la diversità delle vostre lingue, dei vostri colori. In ciò, vi sono certamente alcuni segni per i saggi” (Sura Ar-Rum, versetto 22).
Soufiane Djilali è un politico algerino ed è il presidente del partito riformatore Jil Jadid e membro del Consiglio Nazionale di Transizione.
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