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La dura scelta dell’Europa

I migranti: fonte di crescita economica ma non inclusi socialmente. Si può prevedere una soluzione vantaggiosa per tutti?

Di Tawfiq Alsaif. Asharq al-Awsat (22/02/2017). Traduzione e sintesi di Emanuele Uboldi

Il Forum Economico Mondiale che si tiene tutti gli inverni a Davos, in Svizzera, ha riservato parte del proprio programma alla questione delle migrazioni, una svolta significativa per la comprensione di questi fenomeni. Il dibattito sulle migrazioni risale alla fine del secolo scorso, sospinto da un mix di fattori: prima di tutto economici e culturali, poi anche politici e di sicurezza.

L’Europa ha conosciuto le ondate migratorie più consistenti negli anni del boom successivo alla Seconda guerra mondiale, che ne ha attenuato l’evidenza fino alla fine del ventesimo secolo. Migliaia di migranti arrivarono dal continente indiano, africano e dall’Asia orientale: forza lavoro a basso costo impiegata nel settore tessile e meccanico, costruzione di strade, palazzi e ferrovie, così come nella ristorazione e nel settore ortofrutticolo. I problemi legati alle migrazioni erano affrontati bilanciando pro e contro da un punto di vista prettamente economico. Francia e Regno Unito, per esempio, concedevano facilmente visti e permessi di lavoro ai cittadini delle loro ex-colonie poiché le proprie economie ne avevano bisogno.
Nel ventennio successivo emersero altri fattori, che spostarono il dibattito sulla nazionalità e l’inclusione sociale. Probabilmente ciò che ha dato risalto a questi fattori è stato il rallentamento dell’economia (soprattutto nei settori ad alta intensità di lavoro), oltre alla caduta del blocco comunista, che ha portato all’apertura dei mercati dell’Europa orientale ai capitali occidentali. In ultimo luogo, anche gli improvvisi cambiamenti culturali delle comunità migranti.
Proprio riguardo quest’ultimo fattore, mi preme far notare che i media si sono concentrati sulla connotazione musulmana dei migranti, attirando ulteriore attenzione. Ma la questione va ben oltre a questo. Ricordo come l’ascesa di Nelson Mandela a modello internazionale dopo la sua scarcerazione nel 1990 abbia dato vita a un’ondata di gioia tra i migranti di origine africana, anche quelli i cui avi erano migrati un secolo prima e che avevano ormai perso i contatti con i propri paesi di origine. All’incirca nello stesso periodo, i migranti cinesi e del sud-est asiatico vissero una simile ondata di entusiasmo alimentata dalla crescita economica delle “tigri asiatiche”, modello di successo di una rapida industrializzazione. Con riferimento ai migranti musulmani, soprattutto mediorientali e della penisola indiana, il dibattito è cambiato dopo il 1989 – e dopo la crisi del Golfo, facendo scoprire un’identità propria separata dalla massa.

In tutto questo percorso, l’agente primario della crisi è stato il desiderio dei migranti di interagire con la società europea restando se stessi, cioè senza programmare una completa inclusione sociale negli usi e costumi europei, nella misura in cui questo avrebbe significato l’abbandono delle proprie tradizioni. Ricordo come in quel periodo veniva data un’importanza senza precedenti ai segni distintivi come i simboli religiosi, i vestiti e i piatti tradizionali, i festeggiamenti nelle feste nazionali e popolari (dei paesi di origine, N.d.R.), il folklore, la musica e via dicendo…

La scelta di tornare ai propri paesi di origine non è fattibile per i migranti, come non è possibile forzarli a conformarsi completamente. Per questo l’Europa è posta di fronte a una scelta difficile, che l’élite appoggia ma alla quale parte della popolazione si oppone: in sostanza, diventare una società multiculturale (cioè nella quale coesistono diverse culture, ma che tuttavia rimangono separate) che non miri all’inclusione sociale come fattore di unità nazionale.
Penso che questo sia il destino già scritto per il mondo intero.

Tawfiq Alsaif è un letterato e scrittore saudita.

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