Di Ma’an Al-Biyari. Al-Arabi al-Jadeed (16/01/2017). Traduzione e sintesi di Federico Seibusi.
Da quando si è tenuta la conferenza di Ginevra per la pace in Medio Oriente nel dicembre 1973 fino alla conferenza di Parigi per la pace nella stessa regione del 15 gennaio 2017, è trascorso molto tempo e da quel momento la superiorità militare specifica di Israele è incrementata come la sua progressiva mancanza di responsabilità nel commettere attacchi dovunque. D’altra parte invece non è accaduto nulla nell’interesse dei palestinesi in attesa e sempre più convinti che vi sarà giustizia con la richiesta di pieni benefici da una pace definitiva e remota.
La conferenza di Ginevra è stato un tentativo per fornire una soluzione alla disputa arabo-israeliana nel contesto della guerra di ottobre. Israele si opponeva di fronte a qualsiasi ruolo svolto della Nazioni Unite e anche a qualsiasi influenza europea; mentre era impensabile la presenza di una qualsiasi delegazione palestinese poiché l’ostinazione di Israele aveva il favore americano e sovietico.
La questione palestinese con il discorso di pace tenuto da Yasser Arafat alle Nazioni Unite nel novembre 1974, ha preso un altro corso arrivando alla stretta di mano di Yasser Arafat con Yitzhak Rabin alla Casa Bianca sotto la tutela del presidente americano nel settembre del 1993. Tutto ciò è stato possibile solamente attraverso l’espulsione di Arafat, i suoi compagni e i guerriglieri fedayyin dal confine fra Libano e Palestina verso l’Algeria, lo Yemen, e la Tunisia. In seguito, l’attenzione si è rinnovata verso un’altra componente del conflitto rappresentata dal significato nobile della cultura e dei diritti umani; ed è una questione che non ha smesso di infastidire e indebolire lo Stato israeliano. In questo contesto, il popolo palestinese non rappresenta solamente un’entità politica, ma anche uno stato benché sia privo di un esercito e abbia un’autorità carente guidata da Mahmud Abbas; conseguenza diretta dell’accordo iniquo della Dichiarazione dei principi a Oslo.
La conferenza di Parigi del 15 gennaio è una dichiarazione internazionale a favore della “soluzione dei due Stati”. Sebbene Netanyahu si sia impegnato a denigrare l’incontro, è evidente che ciò sia stato utile alla causa politica palestinese, innalzando la questione a un livello più alto e fondandosi sul diritto palestinese. Da parte sua, la causa palestinese prende in considerazione il contenuto morale in merito al rifiuto dell’espropriazione delle terre poi concesse ai cittadini chiamati dall’Ucraina e dall’Etiopia.
Il momento storico attuale è caratterizzato da un interesse per l’importanza che il mondo riconosce ai palestinesi proprietari di una terra e al loro diritto di un’esistenza politica e geografica che li autodetermini. È giusto nominare uno stato malgrado sia solo un primo passo che ponga fine alla ripugnante occupazione e alle sue rappresentazioni razziste. Quest’obbiettivo non è semplice e deve ancora essere raggiunto ma non avverrà a Parigi come non lo è stato al Consiglio di Sicurezza di New York. Durante la modifica della dichiarazione a conclusione della Conferenza di Parigi sono stati espressi ampi temi e in primo luogo c’è stato un cambio di rotta improvviso europeo o americano verso il diritto dei palestinesi e a una parte della loro patria, questione che non ha richiesto alcuno sforzo.
Durante l’incontro dei settanta Paesi nella capitale francese ci sono stati molti messaggi di grande importanza indirizzati al governo israeliano e in cima alla lista delle notizie c’è quella che Mahmud Abbas, o chi lo succederà, non dimenticherà la fine dell’occupazione del 4 novembre 1967.
Ma’an al-Biyari è uno scrittore e giornalista giordano. È il caporedattore del quotidiano al-Arabi al-Jadeed.
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