Di Amina Khairy. Al-Hayat (04/02/2015). Traduzione e sintesi di Ismahan Hassen.
La questione dei giornalisti di Al-Jazeera, imprigionati a causa della faccenda nota col nome di come di “Marriott Cell”, si è trasformata da un semplice processo a un caso in cui la magistratura ha visto interferire interessi internazionali, discordanze delle agenzie di stampa e la complessità del sistema di comunicazione dei mass media.
Il caso, in cui sono imputati circa 20 giornalisti e che visto un susseguirsi di sentenze altalenanti tra assoluzioni, reclusioni e ammende, dovrebbe essere insegnato nelle facoltà di Scienze Politiche e incorporato tra le tattiche di gestione delle situazioni di crisi e di creazione di stelle televisive.
I giudici egiziani hanno infatti sfruttato il lavoro dei media, trasformandolo dalla sua funzione di una ricerca della verità in uno strumento di falsificazione della stessa. Considerare il lavoro dei giornalisti come contro lo Stato è stato possibile realizzando e accumulando una serie registrazioni che, così manipolate, sono state messe in onda come materiale informativo su canali satellitari al servizio di un gruppo terroristico. I giornalisti imputati hanno negato le accuse e hanno sottolineato di non avere nulla a che fare con qualsiasi gruppo terroristico, dicendo di essere stati arrestati mentre stavano svolgendo semplicemente il loro lavoro.
Mentre l’Egitto e gli egiziani si trovano ad affrontare una serie di problemi (da un’ondata di terrorismo e all’incapacità di gestire le situazione di crisi), le organizzazioni per i diritti umani, gli organismi internazionali e le associazioni giornalistiche hanno lanciato una serie di petizioni e dichiarazioni che invitano le autorità a rilasciare immediatamente tutti i giornalisti, considerati non colpevoli dell’accusa di aver falsificato i fatti raccontati.
Gli hashtag di Twitter, le condivisioni e i riferimenti su Facebook, così come quelli dei media, delle agenzie internazionali e dei canali di notizie, sono sempre stati portavoce dell’ingiustizia subita da dei giornalisti innocenti. Perfino Wikipedia, sulle pagine contenenti informazioni sui giornalisti in questione, li identifica come “innocenti”.
L’appello ai leader e ai ministri di altri Paesi per la liberazione dei giornalisti, che agli occhi del mondo sono innocenti pur senza aver seguito il corso del processo, fa sì che non si tratti più né di una questione dell’Egitto, degli egiziani e dei Fratelli Musulmani, né di una questione di pro e contro, di difesa e prove. La questione è infatti diventata una precisa guerra tra canali satellitari, all’interno di un ambiente virtuale, quello dei mass media e delle “celebrità” internazionali.
Tutta la faccenda è stata poi completata dalla questione della cittadinanza e del decreto repubblicano, che ha portato al rilascio del giornalista australiano Peter Greste e alle dicerie riguardo la volontà del suo collega egiziano-canadese Mohamed Fahmy di rinunciare alla nazionalità egiziana per ottenere anch’egli il rilascio. Queste dicerie hanno infiammato ancora di più le polemiche, trasformando il tutto in una guerra che infuria tra la nazionalità egiziana, che costringe il suo possessore a rispettare le disposizioni della magistratura, e quella occidentale che invece gli assicura il rilascio.
Amina Khairy è giornalista presso il quotidiano Al-Hayat.