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L’eccezione marocchina

Zoom 2 nov eccezione marocchinaDi Souleiman Bencheikh. Tel Quel (29/10/13). Traduzione e sintesi di Alessandra Cimarosti.

Anche se ci permettere di comprendere le specificità storiche dell’identità nazionale marocchina, il concetto di “eccezione marocchina”, preso in ostaggio dalla propaganda ufficiale, non è utile per analizzare con lucidità l’evoluzione del Paese.

I marocchini sono abituati all’idea, alimentata dai media nazionali e stranieri, secondo cui questa eccezione esiste. La stessa che ha fatto affermare, dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, che il Marocco era l’esempio perfetto della coabitazione pacifica delle religioni e che l’estremismo era assente… Almeno fino alla pungente smentita del 16 maggio 2003, quando 14 kamikaze hanno incendiato Casablanca. Eccezione che oggi fa dire che il Marocco ha saputo gestire in modo intelligente la crisi delle rivoluzioni arabe.

Il primo ad aver carpito l’interesse nel comunicare l’eccezionalità marocchina è stato Hassan II. Al tempo della rivoluzione iraniana e della salita al potere dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo arabo, il Marocco voleva dare l’immagine di una paese stabile, risparmiato dall’integralismo religioso. Ma cosa si intende per “eccezione marocchina”?

Il potere marocchino ha ben compreso l’interesse propagandistico della nozione di “eccezione marocchina”, in un momento in cui conflitti politici o armati infiammano la regione. Tra la Tunisia, la Libia, l’Egitto, la Siria e persino tra le monarchie del Golfo, il Marocco fa da studente modello: il potere monarchico rimane legittimo e popolare, assumendo inoltre un’attitudine progressista e avviando una serie di riforme politiche e iniziative di fama internazionale (IER, la Moudawana, la Costituzione ecc.). Tutto ciò forza l’analisi politica a restare ottimista per il Paese e a credere nella volontà riformatrice di chi è al potere.

Ma allora cosa significano quei segnali che dimostrano che la resistenza al cambiamento esiste anche in seno al potere: giornalisti imprigionati, regolari testimonianze di tortura, terribili resoconti da parte delle associazioni di diritti umani, discorsi propagandistici dei media ufficiali, ecc. ? Ed è proprio qui che casca l’asino.

I sostenitori della tesi dell’eccezione marocchina preferiscono spesso mettere da parte i fatti che evidenziano l’imperfezione del sistema per andare, al contrario, ad insistere su elementi che ai loro occhi sono motivo di orgoglio. L’introduzione di un libro apparso nel 2013, intitolato “L’eccezione marocchina” (sotto la direzione di Charles Saint-Prot e Frédéric Rouvillois, edizione Ellipses), è l’illustrazione perfetta del carattere fallato delle analisi di questo concetto. In essa viene esaltata la Costituzione del 29 luglio e la partecipazione della popolazione al referendum; l’autore, però, non menziona mai le agitazioni durante la campagna elettorale, né le modifiche minime al testo costituzionale, né tanto meno il risultato sovietico del referendum con il 98% di “sì”.

Ecco quindi, infine, il vizio nascosto del concetto così attraente di eccezione marocchina: una tendenza a compiacere il potere.

Del resto, ogni Paese potrebbe rivendicare una certa forma di eccezionalità: che dire dello status avanguardista delle donne tunisine in confronto al resto del mondo arabo? Non si tratta di una “eccezione tunisina”? E che pensare dell’eccezionalità del Senegal, un Paese che ha sperimentato la democrazia dal XIX secolo? La sua stabilità politica ha un carattere eccezionale nella regione. Gli esempi dimostrano che all’espressione “eccezione marocchina” va preferito il termine neutro di “particolarismo”, un particolarismo del Marocco che, rispetto agli altri Paesi arabo-musulmani, si manifesta in tre punti: un regime monarchico multisecolare, una popolazione etnicamente mista e religiosamente uniforme, una geografia che lo rende sia una terra di confine che un crocevia di civiltà.

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