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A Kabul si parla attraverso i muri

Kabul graffiti
Kabul graffiti

Di Julien Bouissou. Le Monde (03/06/2016. Traduzione e sintesi di Chiara Cartia.

I muri eretti nella capitale afghana per proteggere alcuni edifici dagli attentati suicidi sono sempre più alti, più larghi, più imponenti. Queste cinte murarie rinchiudono Kabul nella paura e nell’isolamento e separano i ricchi dagli altri.

Un artista ha avuto l’idea di dipingere dei graffiti per trasformare questi muri della “divisione” in “ponti simbolici”: “Volevo far scomparire questi simboli orribili di violenza e volevo utilizzarli come strumenti di espressione per denunciare la guerra e le ingiustizie”, spiega Kabir Mokamel, che vive tra l’Australia e l’Afghanistan. Il suo primo graffiti lo ha dipinto nel 2015: un immenso paio di occhi color arancione, accompagnato dallo slogan: “Vi vedo”, allusione alla corruzione che incancrenisce il paese. L’artista aveva letto che dei supermercati esponevano degli occhi per lottare contro i furti e che il colore arancione era il più angosciante di tutti.

Altri sguardi hanno visto il giorno da allora sui muri dei ministeri e delle ambasciate. Sembrano fissare il passante e seguirlo, come gli occhi della Gioconda. Non si somigliano tutti. Ci sono quelli di Gandhi, vicino all’ambasciata indiana, e altri meno illustri. La realizzazione delle opere conta quanto il loro risultato. Kabir e i suoi amici invitano i passanti, gli ufficiali di polizia, i venditori di strada a far scomparire anche loro i muri dietro a dei graffiti. Dipingere un muro è l’occasione di fermarsi per strada, di chiacchierare, di ricreare un legame messo a dura prova da anni di conflitto. “È anche un modo per gli abitanti di riappropriarsi lo spazio pubblico”, spiega Kabir Mokamel.

L’artista e i suoi colleghi hanno voluto anche rendere omaggio ai loro eroi. Non quelli della propaganda filo-governativa, come il comandante Massoud, i cui ritratti formato gigante sono disseminati in giro per tutta la città, ma piuttosto gli eroi quotidiani: gli spazzini, dipinti nelle loro divise arancioni, i soldati che muoiono per mano dei talebani, le squadre afghane di cricket e di football, ma anche gli innocenti uccisi negli attentati. Presto i ritratti delle vittime saranno dipinti nel luogo stesso in cui hanno perso la vita, perché non siano ridotte solo a un numero. La città esporrà i loro visi come stigmate della violenza.

Kabir riconosce volentieri che trae ispirazione da Banksy: “Il suo lavoro è efficace. L’arte qui è una cosa nuova e bisogna educare il pubblico al suo alfabeto prima di poter fare passi avanti”. I suoi graffiti giocano con i simboli: il grilletto di un fucile d’assalto è dipinto in forma di arcobaleno, i netturbini che trainano i loro carretti nelle strade di Kabul sono rappresentati mentre trasportano immensi cuori rossi. I graffiti che circondano l’ambasciata degli Stati Uniti sono tra quelli più imponenti. Gli artisti hanno proposto di dipingere il viso di una bambina con queste parole: “Scusa per tutti i crimini commessi”. I diplomatici americani hanno declinato l’offerta ma hanno accettato il principio che venga realizzato un disegno.

Il gruppo di artisti capitanato da Kabir Mokamel ha fondato un collettivo chiamato “I signori dell’arte”, una critica molto poco velata ai “Signori della guerra” che continuano a dominare la vita politica afgana. Il collettivo aiuta gli artisti accogliendoli nel suo spazio dove si può accedere a Internet, discutere del proprio lavoro e vendere le proprie opere. “In un paese in conflitto, gli artisti sono tra le categorie più vulnerabili perché il loro sguardo critico non è ben accetto”, dichiara Omaid Sharifi, cofondatore del collettivo che sulla sua pagina Twitter conta anche talebani tra i followers: un modo per tenerli d’occhio?

In ogni caso, la loro azione è stata ripresa anche da altri: delle pubblicità per il latte o per le bevande energetiche sono apparse sui muri e l’agenzia anticorruzione del paese ha adottato come logo un disegno che ricorda quello dei famosi occhi. Degli artisti dello Sri Lanka e del Pakistan si sono ispirati al loro lavoro per attrarre i cittadini dei loro paesi nello spazio pubblico.

Julien Bouissou è un giornalista per il quotidiano francese Le Monde.

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