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IRAN: cinema, hijab e minacce

Tempi duri per le star iraniane, soprattutto se frequentano i palcoscenici internazionali. Dalla Repubblica islamica dell’Iran infatti, secondo quanto riportato dal Telegraph, arriva un veto che potrebbe mettere a rischio le loro carriere.

Il procuratore generale e ex capo del Ministero dell’Intelligence, Gholam Hossein Mohseni-Ejei, ha di recente annunciato che potrebbe essere imposto il divieto di viaggiare alle attrici che si mostrano senza hijab durante le cerimonie di premiazione all’estero. Pur non facendo nomi e cognomi, il procuratore avrebbe alluso a Leyla Hatami, protagonista del film Una separazione, Oscar 2012 come Miglior film straniero, reduce inoltre dal Festival Karlovy Vary in Repubblica Ceca, dove è stata premiata come Miglior attrice in The last step, film diretto da suo marito Ali Mosaffa, e vincitore del Premio della FIPRESCI (Federazione internazionale della stampa cinematografica).

Già qualche mese fa, il vice capo della polizia iraniana Bahman Kargar, aveva criticato l’attrice per il suo look al festival di Cannes: maquillage completo, collo scoperto e l’aggravante di aver stretto la mano agli uomini. Il fatto che avesse il capo coperto da un foulard e che indossasse una lunga gonna è sembrato irrilevante agli occhi delle autorità.

Strana coincidenza, quindi, che il severo monito sia arrivato proprio dopo la partecipazione della Hatami a Cannes, anche se l’attrice ha poi partecipato al festival Karlovy Vary, seppur con un aspetto più castigato e un make up quasi assente.

Non si sa ancora se il veto la colpirà, ma di certo il rischio di vedere stroncata una carriera all’apice del successo è reale, oltre che per Leyla Hatami anche per altri artisti che secondo il regime hanno “disobbedito” in un modo o nell’altro ai dettami imposti dalle autorità, un esempio fra tutti il caso di Ja’far Panahi, reo di aver “pensato” di realizzare un film sui disordini del 2009 nel suo paese.

Tra le donne disobbedienti il Telegraph ricorda il caso eclatante di Golshifteh Farahani, giovane attrice di fama internazionale, che nel gennaio scorso è stata invitata dal governo iraniano a non rientrare più in patria. Dopo aver recitato seminuda nel film Body of Lies, con Leonardo Di Caprio nel 2008, le era stato vietato di lasciare il paese, ma una volta revocato il divieto, l’attrice si è trasferita a Parigi ed ha posato in topless per il settimanale Madame Le Figaro, per protestare contro gli abusi sulle donne e le restrizioni della shari’a sull’abbigliamento femminile. postando la foto anche su facebook. Insieme ad altri attori, si è spogliata anche in un cortometraggio in bianco e nero del regista Jean-Baptiste Mondino, dal titolo Corps et Âmes. 

Golshifteh, oltre ad avere una brillante carriera da attrice e un grande coraggio, è anche un’ottima musicista e ha realizzato un album, Oy, con un altro artista esiliato, Mohsen Namjo, con il quale si è esibita in due concerti in Italia. Nel luglio 2009, Namjo è stato condannato in contumacia a 5 anni di carcere per aver ridicolizzato, secondo il regime, una sura del Corano attraverso la canzone Shams. In realtà l’artista sperimentava, come è normale che facciano tutti gli artisti, delle contaminazioni musicali, nel suo caso specifico effetti rock da trasporre su alcuni versi del Corano. Mohsen inoltre, non ha mai fatto mistero della sua simpatia verso il movimento dei giovani dell’Onda verde. Di certo un aggravante per un regime refrattario alle aperture.

Golshifteh Farahani e Mohsen Namjo

La repressione dimostra però che la voce dell’arte fa paura perché varca gli oceani e i confini di ogni tipo. Con o senza velo. Per quanto si cerchi di soffocarla, grida più forte della rigida cecità dei regimi, forte del suo messaggio universale.

 L’imposizione del velo, l’esilio di un artista o la sua incarcerazione non fanno parte della specificità culturale di un popolo ma rientrano nella violazione dei diritti umani. Ma ritengo sempre doveroso distinguere tra regime e iraniani. Ha ragione Shirin Ebadi:”Noi non siamo il governo iraniano, giudicateci per quello che siamo e non per quello che fa il regime”.

Katia Cerratti