Di Ángeles Espinosa. El País (29/10/2014). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo
Quando la scorsa estate i militanti di Daish (conosciuto in Occidente come ISIS) hanno preso Mosul per poi provare ad avanzare nel Kurdistan iracheno, molti osservatori avrebbero scommesso che il petrolio sarebbe arrivato di nuovo alle stelle. Invece, il prezzo del greggio è caduto di un 25% dal giugno scorso. Inoltre, in maniera insolita, l’Arabia Saudita, il maggiore esportatore del mondo, non ha menzionato l’intenzione di ridurre la sua produzione per stabilizzare il mercato.
Secondo i dati OPEP, il prezzo del barile di petrolio è sceso da 108 dollari a 87 in solo quattro mesi: queste cifre evidenziano una tendenza al ribasso che va avanti da un anno. Sono subito emerse teorie su una guerra dei prezzi, ma gli esperti smentiscono e descrivono una situazione più complessa.
Se confermato tale andamento, i Paesi esportatori di greggio, primi fra tutti Arabia Saudita e Iran, avranno meno introiti e quindi difficoltà nel mantenere i sussidi dei quali la maggior parte di essi sono dipendenti. Infine, si potrebbero generare problemi interni e, senza dubbio, questi Paesi potrebbero perdere la loro influenza a livello internazionale. L’aiuto che Iran e Russia prestano al regime siriano o la multimilionaria assistenza dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi all’Egitto e ad altri alleati regionali sono in larga misura frutto dell’abbondanza di petrolio.
“Il prezzo del petrolio sale e scende di continuo. La situazione non è allarmante”, sostiene da parte sua Alex Schindelar, responsabile presso la Energy Intelligence di Dubai, un’impresa che fornisce informazioni e analisi sul settore energetico. Come prova di quanto detto, “né Arabia Saudita né Iran si sono disturbati a reagire”. Nonostante entrambi siano sempre stati favorevoli al taglio della produzione per mantenere il prezzo, in questa occasione i due Paesi hanno dato a intendere che possono incassare il ribasso per un po’ di tempo. Ma per quanto? Qui sta il nocciolo della questione: “Se si tratta di un cambiamento sistematico, la pressione aumenterà e incominceranno a preoccuparsi”, segnala Schindelar.
“È finito il tempo del barile al di sopra dei 100 dollari; d’ora in poi tutto sta a indicare che il prezzo di manterrà al di sotto di questa cifra: bisognerà adattarsi”, commenta l’economista iraniano Saeed Laylaz, che è stato consigliere del presidente Mohammad Khatami.
Nel breve termine, ciò significa ridurre le spese discrezionali; nel lungo termine, significherà cancellare progetti di infrastrutture, tasto delicato in Arabia Saudita, dove la monarchia ha annunciato ingenti investimenti come risposta alla primavera araba per creare posti di lavoro e migliorare i servizi. Tuttavia, il calo dei prezzi potrebbe anche servire a sanare la gestione del settore ed eliminare i sussidi per i prodotti energetici, argomento assai delicato in Iran, ma che permetterebbe ai governi di rendere concreta quella diversificazione economica che proclamano da anni.
Ad ogni modo, molti analisti sostengono che, vista l’elevata quantità di riserve accumulate negli ultimi anni, l’Arabia Saudita potrebbe resistere per un periodo abbastanza lungo e al contempo rendere meno redditizia la produzione di scisto, che è ciò che ha portato il mercato al ribasso. D’altronde, il principe Al Waleed Bin Talal, nipote del re e uomo più ricco del regno, ha recentemente messo in guardia di fronte al “pericolo di continuare a dipendere quasi completamente dal petrolio”.
Nel caso dell’Iran, la Guida Suprema Ali Khamenei la scorsa settimana ha avvertito che la dipendenza da questi introiti lascia l’economia iraniana alla mercé delle grandi potenze. Il 60% del budget iraniano viene dalle esportazioni di greggio e il crollo del barile obbliga il governo di Teheran a cercare ingressi alternativi. Per coprire il deficit stimato per i prossimi tre mesi e continuare a pagare i progetti in corso, il presidente Hassan Rohani ha appena annunciato che ricorrerà alle riserve strategiche.
È un duro colpo per l’economia dell’Iran che, dopo anni di recessione, aveva iniziato a riprendersi, in parte grazie all’accordo raggiunto lo scorso novembre con le grandi potenze per negoziare una soluzione al programma nucleare.
Anche il sollevamento delle sanzioni potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Mentre da un lato stimola l’economia, dall’altro il ritorno dell’Iran sui mercati del petrolio spingerà ulteriormente i prezzi al ribasso. Lo scorso giugno in occasione dell’ultima riunione dell’OPEP, il ministro iraniano Bijan Zanganeh aveva assicurato che, sollevate le sanzioni, il suo Paese avrebbe potuto aumentare la produzione fino a 700.000 barili al giorno nel giro di due mesi. Non molto ideale per un mercato soprassaturato.
L’analista Bill Faren-Price, direttore generale dell’agenzia di consulenza indipendente Petroleum Policy Intelligence, suggerisce che i membri dell’OPEP, come negli anni ’90, potrebbero ricorrere a un accordo con altri produttori quali Messico, Norvegia e Russia, che non appartengono a questo cartello. Non è solo l’oro nero a essere in gioco.
Ángeles Espinosa è la corrispondente da Dubai per El País.