Intervista al premier giordano Awn Khasawneh

di Mina al-Oraibi (Asharq Al-Awsat 29/01/2012) – Traduzione di Claudia Avolio

 

Lo sfondo è quello del Forum Economico tenuto a Davos (Svizzera), in cui Asharq Al-Awsat ha incontrato il primo ministro della Giordania, Awn Khasawneh. Di seguito riportiamo il testo integrale dell’intervista:

 

A che punto siete nel raggiungimento degli obiettivi fondamentali delle riforme in Giordania?

 

Le riforme, naturalmente, sono un obiettivo in sé. Ma dopo la cosiddetta Primavera Araba, le riforme sono divenute un compito urgente ed importante per ogni Paese arabo. Sotto l’egida di sua maestà il re, la Giordania ha deciso d’adottare una serie di riforme in campo politico e nella Costituzione. C’è inoltre bisogno di riforme anche in campo economico. Voglio parlare anzitutto delle riforme legali e costituzionali. La scorsa primavera ci sono state richieste circa l’aprire un dibattito su alcuni nodi della Costituzione. Il re si è mostrato molto solerte nel rispondere a tali richieste. Una di esse, per esempio, verteva sulla creazione di una corte costituzionale; un’altra rivendicava la possibilità d’avere un governo eletto, cosa che non si è ancora concretizzata. Stiamo agendo in questa direzione. Alcuni chiedono elezioni oneste e trasparenti, altri si riferiscono ai partiti politici e ai loro meccanismi.

 

Che progressi ha compiuto il governo giordano in questo campo?

 

Dalla formazione del mio governo avvenuta in ottobre, la prima cosa che abbiamo fatto è stata tendere la mano a ogni settore dello spettro politico, movimenti islamici, nazionalistici, d’opposizione e di sinistra inclusi. Abbiamo chiesto loro di entrare nel governo. Questo è stato parte della politica generale secondo cui non si può essere riformisti in economia e al contempo reazionari in politica. Le parti politiche in questione, com’è comprensibile, non hanno poi preso parte al governo. Credo che ci sia comunque la possibilità di comprendersi e di coabitare. Risultato diretto di un tale approccio è stato un declino delle cosidette mobilitazioni, oltre ad aver fermato l’escalation che avrebbe potuto condurre la Giordania verso tensioni esplosive. Mettiamo però in chiaro che noi non siamo contro le mobilitazioni pacifiche. Parto dal presupposto che non c’è gap che non si possa colmare con un ponte teso tra il regime e l’opposizione. E’ una condizione che non si presenta in certi Paesi arabi. Il motivo per cui ciò invece avviene in Giordania è che l’opposizione, escluse solo alcune voci, non grida al cambiamento di regime, ma alle riforme necessarie per migliorarlo. I gruppi dell’opposizione hanno fiducia nella guida hashemita. Ed anche lo stesso regime, guidato dal re, vuole le riforme. Dunque la possibilità di attuare riforme che risparmino al Paese rivolte, spargimenti di sangue ed uccisioni – cui sono andati incontro altri Paesi arabi – è in sé un obiettivo nobile. C’è una precisa tabella di marcia che il governo si sta impegnando a rispettare al fine d’introdurre tali riforme politiche. L’idea di base è la creazione di un comitato indipendente che supervisioni e svolga le elezioni parlamentari. Tale principio non è mai stato attuato in Giordania prima d’ora. Si applica in India, in Sudafrica ed in altri Paesi, e la sua importanza risiede nel fatto che in tal modo i governi non si occuperanno delle elezioni.

 

Questo comitato è già venuto alla luce?

 

Il comitato sarà indipendente e si comporrà di cinque persone, come previsto dal documento immesso in sede parlamentare, che però il parlamento non ha ancora votato. Ci vorrà in effetti parecchio tempo prima che si esprima a riguardo. L’attesa ci darà il tempo necessario prima d’annunciare una data precisa per le elezioni.

 

Non sono sorte discussioni proprio contro questo ritardo nello stabilire la data delle elezioni?

 

Ce ne sono state, ma non avevano alcun fondo di verità. Il nostro è un work in progress. L’importante è che si crei un comitato indipendente per condurre le elezioni, altrimenti dovrebbero tenersi alla vecchia maniera, e torneremmo indietro. Il documento in questione è stato posto all’attenzione del parlamento alla fine di dicembre, e stiamo aspettando che venga ratificato. Abbiamo circa sei mesi per occuparci della logistica del comitato. Per citare chi l’ha già attuato, vorrei dire che in India il comitato è presieduto da Mahmud Qurayshi, membro della minoranza musulmana, e conta 30 mila impiegati. Quando sarà tempo di elezioni in India, il comitato avrà un milione di impiegati e potrà richiedere l’assistenza dell’esercito nello svolgere il processo elettorale. Per me formare questo comitato è di vitale importanza in quanto è la chiave che aprirà la porta di un vero processo democratico. Al momento stiamo lavorando ad una legge elettorale in modo che quando sarà logisticamente applicabile si potranno tenere le elezioni. Speriamo che ciò possa accadere nell’autunno, verso la fine di quest’anno.

 

Perciò non è vostra intenzione ritardare le elezioni?

 

Non abbiamo alcun desiderio di far slittare le elezioni parlamentari al prossimo anno. L’importante non è solo tenere le elezioni, ma tenere elezioni di qualità.

 

Ha considerato la possibilità di candidarsi per concorrere alle elezioni?

 

Non direi proprio. Finora sono stato nominato alle elezioni su scala internazionale otto volte e ringraziando Dio ho vinto.

 

Qual è l’obiettivo finale delle riforme?

 

Al momento l’importante è assicurare la salvaguardia del Paese. Ma questo non significa attendere che giunga la tempesta della Primavera Araba. Dobbiamo costruire la Giordania su fondamenta solide in modo che il Paese possa abitarvi. La Primavera Araba ha dimostrato che la vecchia maniera non è più realizzabile nel mondo arabo. L’obiettivo è trovare un’equazione che ci permetta di restaurare lo stato civile esistente già nella Costituzione del 1950, e di porre fine alla segregazione tra i cittadini, cosicché la volontà del popolo non sarà plasmata da fuori. Questi non sono favori concessi dal governo: sono diritti dei cittadini giordani ed arabi. Vogliamo che la giustizia e la legge siano vere garanzie della sopravvivenza e della continuazione degli Stati. Il regime giordano non è stato costruito su di una persona salita al potere in seguito ad un colpo militare. Si tratta invece di un regime che si basa su una dinastia reale con retaggio religioso. Perciò nulla impedisce concordanza tra il regime e l’interesse del popolo.

 

I movimenti ed i partiti islamici sono in ascesa. Alcuni li temono e altri si lamentano contro questi timori. Cosa ne pensa?

 

Non stiamo parlando di società di beneficenza, ma di movimenti politici veri e propri. Ciò non toglie che nella realtà dei fatti abbiano tutti i diritti di investire il proprio ruolo. Hanno peso nella società giordana, così come in altre società arabe. Tuttavia credo che in Giordania abbiano meno peso di quanto si ritenga. E’ solo una mia previsione, poi saranno le urne a dare il responso. Non possiamo manovrare la paura e costruire tutto basandoci su di essa. Sono del parere che essere intimiditi dai movimenti islamici sia eccessivo. Ho incontrato spesso molti di loro e ognuno ha sottolineato come non voglia affatto alzare i toni. Si dicono a fianco della leadership hashemita giordana, e non hanno intenzione di rovesciarla. Al contempo c’è una lezione offerta da ciò che sta accadendo nel mondo arabo. Il tentativo di escludere i movimenti ed i partiti islamici ha fatto accrescere la loro popolarità, e la parte che giocano oggi è finita nelle loro mani quando lo stato ha abbandonato il proprio ruolo. Per farla breve, lasciamo che sia la competizione a mostrare chi si prodiga di più per il popolo.

 

Mentre la Giordania sta affrontando sfide interne, lungo i suoi confini si stanno avvicendando sfide esterne e turbolenze. In che modo Lei è preoccupato delle ripercussioni che gli sviluppi in Siria potrebbero avere sulla Giordania?

 

Credo che nessuno abbia una visione chiara di ciò che succederà in Siria, o di come doversi comportare al riguardo. La nostra politica si basa anzitutto sulla premessa che le sanzioni non dovrebbero colpire il popolo siriano, e solo ora che ho chiarito questo punto posso passare alla situazione della Giordania. Noi interagiamo col popolo siriano anche a livello tribale, per non parlare dell’economia e l’agricoltura. L’intero settore dei trasporti è influenzato da ciò che accade in Siria. Ma in fin dei conti il problema non è tra i nostri due Paesi, quanto piuttosto tra il governo siriano ed un segmento molto importante del suo popolo. Siamo addolorati da ciò che sta avvenendo, che ci pone dinanzi a opzioni morali ed umanitarie molto difficili. Alcuni dicono che il conflitto siriano durerà a lungo, cosa che sarebbe certo pessima per il popolo. Altri dicono che il regime stia per collassare, ma si tratta in ogni caso di mere speculazioni.

 

Si aspetta un intervento internazionale in Siria?

 

Mi pare difficile. In altre parole, l’esempio della Libia, così come della stessa Bengasi, non sussiste. Lo stato in Siria è più forte di quanto lo fosse in Libia, e il grado di coinvolgimento della Russia e della Cina è altrettanto maggiore. Ma viviamo in una regione in cui nessuno può dirsi certo di nulla. (…) Ritengo che le sanzioni possano essere formulate secondo modalità tali da non andare a colpire il popolo rendendolo un relitto com’è successo in Iraq.

 

Per Lei le sanzioni sono il miglior modo di gestire la situazione?

 

Personalmente sono contro le sanzioni. Saranno anche permesse agli occhi delle Nazioni Unite, ma moralmente vanno sempre a colpire il popolo, come si è verificato in Iraq nel corso di tredici anni. Quella situazione fu triste e dolorosa, e prova il fallimento morale del sistema sanzioni.

 

Passiamo alle negoziazioni tra palestinesi ed israeliani appoggiate dalla Giordania. Come vede questa mossa, e secondo Lei le negoziazioni possono dare esito positivo nelle circostanze attuali?

 

Non è una questione semplice, e ce ne rendiamo conto. La Giordania ha sentito che era suo dovere fare un tentativo, perché lasciare le cose come stanno, ora che l’Amministrazione degli Stati Uniti è occupata, potrebbe condurre ad altre conseguenze. Con questo tentativo abbiamo previsto che entrambe le parti avrebbero avuto di fronte le proprie responsabilità. Ci siamo convinti che il dialogo fosse meglio del silenzio. E’ chiaro che la situazione attuale non sia favorevole per condurre un processo di pace. Ci sono molte difficoltà, oltre a un grosso cambiamento nella società israeliana, che porta con sé obiettivi strategici più grandi. Inoltre l’Amministrazione americana è impegnata nelle elezioni. Speriamo che tutto ciò cambierà dopo questa fase. Al momento, il processo prevede una gestione del conflitto in modo da non permettergli di aggravarsi.

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