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“In nome della solidarietà interreligiosa, non indossate l’hijab”

donne musulmane hijab
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Di Asra Q. Nomani e Hala Arafa. The Washington Post (21/12/2015). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo.

“L’hijab è un simbolo di modestia e dignità”: questo quanto riferito dal KSL TV dello Utah, negli Stati Uniti, in seguito a un evento a favore del velo islamico che qualche giorno fa, ha visto la compresenza di tre guide spirituali donne – un rabbino ebreo, un parroco episcopale e un reverendo unitario – e un imam presso il Centro Islamico Khadeeja di West Valley City.

Quanto a noi, due musulmane nate in Egitto e in India, rifiutiamo questa interpretazione dell’hijab come mero simbolo di modestia e dignità da parte delle fedeli seguaci dell’Islam. Questo evento non ha fatto che ricordarci quanto i musulmani più conservatori si impegnino nel dominare le moderne società islamiche.

Si tratta di un movimento diffonde un’ideologia di Islam politico, detto “Islamismo”, che quasi categorizza l’indossare l’hijab come il “sesto pilastro” dell’Islam (oltre alla proclamazione di fede, la preghiera, il digiuno, la carità e il pellegrinaggio). Questo movimento (codificato da Iran, Arabia Saudita, dai Talebani e da Daesh) ha fatto sì che la parola “hijab” venisse erroneamente tradotta con la parola “velo”, mentre in arabo “hijab” significa letteralmente “tenda”. Dalla sua radice derivano anche i verbi “nascondere, isolare e ostacolare” qualcuno o qualcosa.

Ma nel Corano non viene mai usata per indicare un velo. L’obbligo per le donne di coprire il loro capelli deriva da una cattiva interpretazione dei versetti del Libro Sacro. La parola “hijab”, o suoi derivati, appare nel Corano come “muro di separazione” (41:5, 42:52, 17:45, 7:46 – qui anche come “ostacolo”), come “tenda” (33:53), come “nascondere” (19:14) e infine come “impedire” o “negare” l’avvicinamento a Dio (83:15). Quindi, hijab indica una divisione. Nel versetto più citato quanto si tratta di velo, viene menzionato il jilbab (33:59), un capo di abbigliamento esistente a quell’epoca simile a un lungo soprabito. Il versetto non impone di indossare un altro indumento, né cita il velo.

Per noi, l’hijab è simbolo di un’interpretazione dell’Islam che crede che le donne siano una distrazione per gli uomini, i quali sono deboli e quindi non devono essere tentati dalla vista delle chiome femminili. Non siamo affatto d’accordo: questa ideologia promuove un atteggiamento sociale che assolve le molestie sessuali e scarica il peso sulla vittima.

Purtroppo, l’idea dell’hijab come velo obbligatorio è diffusa da molti in tutto il mondo: solo per citare un esempio, basta pensare alla “Giornata mondiale dell’hijab” iniziata nel 2013 da Nazma Khan, proletaria dell’omonima azienda di sciarpe.

Oggi, nel 21° secolo, la maggior parte delle moschee del mondo, anche negli USA, negano alle donne il diritto di pregare senza coprire i capelli, come lo era per la Chiesa Cattolica fino alla riforma del Concilio Vaticano II nel 1965. Indossare il velo in moschea dovrebbe essere facoltativo, se davvero si vogliono creare dei luoghi di preghiera “women-friendly”. Il nuovo Movimento di Riforma Musulmano – una rete globale per la tutela dei diritti umani, della pace e della governance secolare – sostiene il diritto delle donne musulmane di indossare o meno il velo.

Come donne cresciute in famiglie musulmane moderne, stiamo cercando di reclamare la nostra riscattare la nostra religione dalle grinfie di un’interpretazione rigida ed errata. Abbiamo visto quello che l’Islam politico ha fatto alle nostre terre e ai paesi che ci hanno accolto. Come americane, crediamo nella libertà di culto. Ma va chiarito nelle università, nei media e nei luoghi di discussione che parlare di hijab non significa parlare di Islam, ma dell’islamismo praticato da certi attori, come i mullah iraniani e sauditi.

Quindi ecco il nostro appello: non indossate il velo in “solidarietà” con quell’ideologia che ci zittisce, che identifica il nostro corpo con “l’onore”. Piuttosto, schieratevi al nostro fianco con coraggio morale contro l’ideologia dell’islamismo che ci chiede di coprire i nostri capelli.

Asra Q. Nomani è stata giornalista per il Wall Street Journal reporter ed è co-fondatrice del Movimento di Riforma Musulmano.

Hala Arafa è una giornalista in pensione. Era cronista per la sezione araba di Voice of America.

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