Di Samir Aita. As-Safir (28/11/2015). Traduzione e sintesi di Federico Seibusi.
Negli Stati Uniti e negli Stati europei sta crescendo a poco a poco il grado di partecipazione in una guerra contro Daesh (ISIS), dopo che gli è stato permesso di espandersi così tanto in Iraq e in Siria. Ma cosa c’è dietro la retorica e la strategie di questi paesi? Quali sono le forze locali che saranno supportate che vinceranno sul campo e che costituiranno le fondamenta dopo Daesh?
Niente indica che questa partecipazione sia legata al desiderio di una restaurazione della stabilità nella regione ma, in certa misura, si tratta di una reazione effettiva agli attacchi terroristici di Parigi e al timore del ritorno dei terroristi europei che hanno aderito a Daesh.
Inoltre, nel contesto della crisi migratoria verso l’Europa, un altro indice di incertezza è dato dalla preoccupazione delle élite governanti europee di fronte ad un aumento dei discorsi di destra radicale e della probabilità dei suoi partiti di guadagnare un grande consenso nelle prossime elezioni.
Si prevede che il numero di rifugiati in Europa raggiunga il milione in un anno, ma pochi politici europei osano dire chiaramente che una gran parte di loro proviene dai paesi dei Balcani e che i rifugiati dell’Albania, Serbia, Kosovo, Bosnia ed Erzegovina superano il numero di quelli siriani che hanno fatto risvegliare l’opinione pubblica riguardo la questione. Questa è un’altra crisi che gli Stati europei e gli Stati Uniti tentano di risolvere solamente con la guerra e la divisione.
L’afflusso di rifugiati non è una novità ed era già avvenuto con lo scoppio delle primavere arabe. Mentre l’Europa finora non era preoccupata dalla questione, i paesi arabi lo sono da molto tempo a causa dei rifugiati palestinesi, iracheni, somali, sudanesi ed altri ancora, che con il loro numero rappresentano una percentuale rilevante nella popolazione delle nazioni in cui si sono rifugiati. L’Europa aveva appoggiato i governi nei paesi arabi specialmente per impedire l’afflusso dei rifugiati, ma nessuno ha notato come il crollo delle comunità locali arabe si sia completato attraverso l’inclusione di coloro che erano ritenuti ospiti e fratelli e non rifugiati. Ma le visioni e le politiche a breve termine hanno fallito di fronte all’enigma strutturale che ha radici nella mancanza di sviluppo nei paesi arabi.
Oggi, i media europei si chiedono cosa spinga i rifugiati ad emigrare molto lontano dai paesi confinanti e se ritorneranno qualora vi sarà di nuovo stabilità nei loro paesi. Certamente, il caos della guerra e l’enorme numero degli sfollati nei paesi confinanti ha un grande effetto, così come l’assenza dell’appoggio degli Stati donatori e delle Nazioni Unite. Ma la vasta immigrazione è connessa maggiormente con il crollo dei servizi fondamentali, come la sanità e l’istruzione.
Così, malgrado il numero di rifugiati sia inferiore alla popolazione dei paesi ospitanti, la crisi migratoria è diventata una questione essenziale nelle elezioni presidenziali statunitensi e in quelle europee e ha velocizzato le negoziazioni riguardo l’entrata della Turchia nell’Unione Europea, purché chiuda i suoi confini con la Siria e l’Iraq e fermi con rigore questo afflusso migratorio.
Ma tutto questo non fermerà il forte desiderio di emigrare verso i paesi a nord poiché, in realtà, ciò che potrà stimolare l’arresto di questa situazione è il ritorno della speranza di una vita dignitosa nei paesi di origine. La speranza non tornerà se non quando sarà fatta un’azione seria per fermare la guerra, la frammentazione dei paesi ed il declino delle società. La speranza non tornerà se non quando l’Europa, gli Stati Uniti, gli altri paesi e le istituzioni internazionali apriranno nuovi orizzonti per lo sviluppo negli Stati arabi, in modo che si possano curare le cause della crescita del terrorismo, affinché venga garantita una dignità per le nuove generazioni.
Infine, il ritorno della speranza richiede anche élite politiche di livello che sappiano analizzare ed elaborare il futuro e la storia. Ma queste élite scarseggiano nei paesi verso cui si dirige l’afflusso migratorio, tanto quanto nei paesi arabi da cui proviene.
Samir Aita è un giornalista ed editorialista del giornale libanese as-Safir.
I punti di vista e le opinioni espressi in questa pubblicazione sono di esclusiva responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente il punto di vista di Arabpress.eu
Add Comment