In copertina, Cinzia Merletti suona un tamburo a cornice, foto di Anna Maria Canciani
Care lettrici e cari lettori, come promesso continuiamo, insieme a Curt Sachs, il nostro viaggio attraverso il mondo degli strumenti musicali nel mondo arabofono.
Partiamo dai tamburi a cornice perchè, come scrive Sachs, questi furono i primi di cui si parla già nell’Arabia pre-islamica e, cosa interessante, la loro funzione era quella che caratterizzava l’intero mondo semitico, in ambito soprattutto femminile. Erano le donne, cioè, che animavano le feste con i loro strumenti ritmici, persino i momenti del lutto, sino ad arrivare alla categoria delle professioniste del canto e della danza (qaynat) che, come ben sappiamo, erano talmente brave da saper danzare e suonare contemporaneamente strumenti come il riqq.
Il nome comune per designare i tamburi a cornice era mizhar, termine che è giunto sino ad oggi come mazhar. Questo nome, quindi, si riferisce ad un tamburo a cornice e non, fa notare Sachs contrapponendosi Henry George Farmer, ad un liuto.
Ad evidenziare la stretta relazione con il mondo semitico c’è la somiglianza tra il tof, ebraico, ed il duff che, ancora oggi, indica genericamente il tamburo a cornice. Nello specifico, però, tale nome si riferiva a tamburi di forma ottagonale o quadrata, con telaio poco profondo, due pelli e corde all’interno, proprio come certi tamburi usati nell’antico Egitto e tra i Sumeri. I tamburi rotondi, invece, erano chiamati generalmente dà’ira, o “circolare”.
Ai tempi del profeta Muhammad si parla del girbāl, strumento probabilmente abbastanza grande, visto che il suo nome indica il setaccio. Più tardi, in epoca medievale, il girbāl apparve in Andalusia come negli altri territori arabi.
I tamburi di forma rotonda sono attualmente divisi in due gruppi principali, a seconda della misura del telaio e della presenza o meno di corde e altri dispositivi tintinnanti. Sono tutti monopelli.
Il grande bandair (forse berbero), con un diametro di 40 cm, ha delle corde; il tar, il cui telaio ha un diametro di 30 cm, è senza corde; così pure il più piccolo di questo gruppo, il req, con 25 cm di diametro. Questi tamburi rientrano nel primo gruppo mentre al secondo appartengono gli strumenti con anelli tintinnanti, come il mazhar, le cui dimensioni vanno dai 40 ai 48 cm di diametro.
Tranne qualche eccezione, i piattini tintinnanti sono disposti in cinque ordini, come appare nelle miniature medievali e come riscontriamo ancora oggi.
Sachs fa notare un aspetto molto interessante riguardo il numero e che, ricordo, riguarda anche un importantissimo strumento del mondo arabofono, l’oud. Gli strumenti musicali, infatti, evidenziavano in qualche modo quello che faceva parte della mentalità stessa degli Arabi, in senso lato: il collegamento intimo e profondo, cioè, tra il cosmo e il microcosmo, tra la sfera celeste e quella terrena, reso possibile attraverso la musica.
Il numero cinque, nel caso dei tamburi a cornice, simboleggiava matematicamente il cerchio, ossia il telaio (circolare) che dava forma allo strumento. Non dimentichiamo, ribadisco, che la relazione tra matematica e musica faceva parte della forma mentis degli Arabi e, prima ancora, dei Greci da cui essi tanti avevano imparato: il numero era l’ esemplificazione meravigliosa delle leggi, e quindi dell’armonia, del creato.
Anticamente come oggi, i tamburi a cornice venivano percossi in prossimità di tre zone: centro, bordo e area intermedia, a seconda della tipologia del suono che si vuole ottenere (dum, tak, ka). Il modo in cui i tamburi venivano tenuti variava a seconda dei popoli, così che gli Egiziani li tenevano con entrambe le mani, mentre i Tunisini li reggevano con la sola mano sinistra.I nomi dei tamburi a cornice moderni , così come li conosciamo ancora oggi e come ci sono stati tramandati grazie alla dominazione araba in Spagna, comparvero in epoca abbaside, dal 750 in poi d.C..
La prossima volta ci occuperemo dei tamburi cilindrici e dei timpani.
A presto!
Cinzia Merletti
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