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I governi esteri comprano influenza nei think-thank americani

The New York Times (06/09/2014). Sintesi di Roberta Papaleo.

Secondo un’indagine condotta da The New York Times, negli ultimi anni più di una dozzina di prominenti gruppi di ricerca di Washington hanno ricevuto decine di milioni di dollari da governi esteri mentre questi facevano pressione sui funzionari del governo degli Stati Uniti affinché adottassero politiche che riflettessero le priorità dei donatori.

Quel denaro sta trasformando il vecchio mondo di gruppi di esperti (o think-thank) in un potente braccio di lobbying dei governi esteri a Washington. Ciò ha generato domande spinose sulla libertà intellettuale: alcuni ricercatori affermano di aver ricevuto pressioni per arrivare a conclusioni simpatizzanti i governi che finanziavano la ricerca.

I gruppi di esperti non rivelano i termini degli accordi conclusi con questi governi. Questi accordi coinvolgono i think-thank più influenti di Washington, come il Brookings Institutions, il Center for Strategic and International Studies e l’Atlantic Council. Ognuno di essi è destinatario di fondi esteri, con i quali vengono redatti documenti politologici, organizzati forum e briefing privati per funzionari del governo statunitense che di solito sono in linea con l’agenda di politica estera di Washington.

La maggior parte del denaro, in numerose forme, arriva da Paesi europei, mediorientali e asiatici, soprattutto dai grandi produttori petroliferi come Emirati Arabi Uniti e Qatar. Gli Emirati Arabi, uno dei principali sostenitori del Center for Strategic and International Studies, ha tacitamente elargito una donazione di più di 1 milione di dollari per aiutare a costruire il nuovo quartier generale del centro, non lontano dalla Casa Bianca. Lo scorso anno il Qatar, piccolo ma ricco, ha concesso una donazione quadriennale di 14,8 milioni di dollari al Brookings Insitututions, i quali sono serviti a fondare una filiale del think-thank in Qatar e a finanziare un progetto sulle relazioni degli Stati Uniti con il mondo islamico.

“Se un membro del Congresso si serve dei rapporti del Brookings, dovrebbe fare attenzione: non raccontano tutta la storia”, ha dichiarato Saleem Ali, che è stato socio al Brookings Doha Center in Qatar e che ha dichiarato che, durante il suo colloquio, gli è stato detto che non avrebbe potuto adottare una posizione contraria al governo qatarino nei suoi lavori. “Magri non dicono il falso, ma non dicono tutta la storia”.

Durante i colloqui, i dirigenti dei gruppi di esperti difendevano saldamente gli accordi, dichiarando che il denaro non avrebbe mai compromesso l’integrità delle ricerche delle loro organizzazioni. A loro dire, nel momento in cui i punti di vista dei loro ricercatori si sovrapponevano a quelle dei donatori, si trattava di pura coincidenza. Tuttavia, nei contratti e nei documenti interni, i governi esteri sono spesso espliciti su quello che si aspettano dalla ricerca svolta dai gruppi da loro finanziati.

Gli accordi sono di varie forme: alcuni Paesi lavorano direttamente con i think-thank, stendendo contratti che definiscono lo scopo e la direzione della ricerca. Altri donano denaro ai gruppi di esperti e poi pagano squadre di lobbisti e di consulenti di pubbliche relazioni per fare pressione sui gruppi stessi per promuovere l’agenda nazionale.

Lo scopo dei finanziamenti esteri ai think-thank americani è difficile da definire, ma a partire dal 2011, almeno 64 tra governi esteri, entità controllate dai governi o funzionari governativi hanno dato il loro contributo a 28 tra le principali organizzazioni di ricerca con sede negli USA, secondo quanto rivelato da documenti istituzionali e governativi.  Tali documenti indicano che le contribuzioni ammontano a un minimo di 92 milioni di dollari, ma il totale è sicuramente maggiore.

In seguito all’indagine, alcuni gruppi di ricerca hanno concordato di fornire qualche piccola informazione extra riguardo la loro relazione con i Paesi esteri. Tra di essi il Center for Strategic and International Studies, la cui agenda di ricerca si concentra soprattutto sulla politica estera, che lo scorso mese ha accordato di rilasciare una lista di 13 governi esteri donatori, dalla Germania alla Cina, rifiutandosi però di rivelare i dettagli sui contratti o sull’effettivo ammontare delle donazioni. In un’intervista, John J. Hamre, presidente e direttore esecutivo del centro, ha ammesso che i ricercatori dell’organizzazione a volte sottopongono all’amministrazione Obama o al Congresso le cause inerenti ai temi per cui i governi donatori hanno finanziato i loro studi. Ma Hamre ha sottolineato che non lo vede come lobbying e che il suo gruppo non è di certo un agente estero.

Spesso è difficile discernere la linea che separa la ricerca accademica dall’attività di lobbying. Il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti – due nazioni ospitanti molte basi militari americane e che vedono la continua presenza militare americana come un elemento centrale per la loro sicurezza nazionale – sono stati particolarmente aggressivi nelle loro donazioni ai think-thank. Le due monarchie del Golfo sono inoltre impegnate in una battaglia tra di esse per plasmare l’opinione occidentale, con il Qatar che sostiene che il modello di islam politico della Fratellanza Musulmana è la migliore speranza per la democrazia  e gli Emirati Arabi che cercano di persuadere i politici statunitensi che la Fratellanza è una pericolosa minaccia alla stabilità della regione.

Gli Emirati Arabi, che sono di recente diventati il principali sostenitore del Center for Strategic and International Studies, si sono rivolti al think-thank nel 2007. La nazione ha pagato l’organizzazione di ricerca per promuovere una serie di studi “per esaminare l’importanza strategica” della regione del Golfo e “identificare le opportunità per un costruttivo coinvolgimento degli Stati Uniti”. Ha inoltre finanziato il centro per l’organizzazione di viaggi annuali nella regione durante i quali dozzine di esperti di sicurezza nazionale statunitensi ricevevano briefing privati da funzionari del governo locale.

Questi e altri eventi hanno fornito ai diplomatici emiratini un’importante piattaforma per sottoporre il loro caso. Durante una tavola rotonda a Washington nel marzo 2013, il generale Martin E. Dempsey, capo dello Stato Maggiore congiunto, ha rassicurato Yousef al-Otaiba, ambasciatore degli Emirati a Washington, che il Paese era uno dei “più affidabili e facoltosi alleati” dell’America, “soprattutto nel Golfo”.

Le decine di milioni di donazioni da interessi esteri arrivano con certe aspettative, hanno dichiarato i ricercatori delle organizzazioni in un’intervista. A volte, i donatori esteri si muovono in modo aggressivo per reprimere opinioni contrarie alle proprie.

Per quasi vent’anni, Michele Dunne ha lavorato come specialista del Medio Oriente presso il Dipartimento di Stato, con diversi soggiorni al Cairo e a Gerusalemme, oltre a collaborare con il Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca. Nel 2011, la Dunne era la naturale candidata per il posto di direttore fondatore del Rafik Hariri Center for the Middle East, filiale dell’Altantic Council. Il centro era stato creato con una generosa donazione da parte di Bahaa Hariri, figlio maggiore di Rafik, e con il sostegno del resto della famiglia Hariri.

Ma nell’estate del 2013, quanto l’esercito egiziano ha deposto con la forza l’allora presidente democraticamente eletto Morsi, la Dunne si è presto resa conto che la sua indipendenza aveva dei limiti. Dopo aver testimoniato a sostegno della sospensione dell’invio di aiuti militari all’Egitto da parte del governo di Washington, e dopo aver definito quanto accaduto al Cairo come un “colpo militare”, Bahaa Hariri ha chiamato l’Atlantic Council per lamentarsi, secondo quanto riferito da alcuni dirigenti. La Dunne si è rifiutata di commentare sull’accaduto, ma dopo quattro mesi da quella telefonata, la Dunne aveva lasciato l’organizzazione. La Dunne è stata rimpiazzata da Fancis J. Ricciardone Jr, ex ambasciatore statunitense in Egitto durante il governo Mubarak. Ricciardone, diplomatico di carriera, era stato precedentemente criticato da conservatori e da attivisti per i diritti umani per essere troppo rispettoso del governo Mubarak.

Alcuni accademici presso altri think-thank di Washington, che hanno mantenuto l’anonimato, hanno descritto esperienza simili che hanno avuto un effetto limitante sulle loro ricerche e sulla loro capacità di rendere pubbliche dichiarazioni che potrebbero aver offeso gli attuali o futuri donatori esteri. Al Brookings, per esempio, un donatore apparentemente collegato al governo turco ha sospeso il suo contributo dopo che un ricercatore aveva criticato il Paese.

La cosa si fa particolarmente importante quando si tratta del governo del Qatar. I dirigenti del Bookings hanno citato politiche strettamente interne che dichiarano che il lavoro dei loro ricercatori “non è influenzato dalle opinion dei finanziatori”, in Qatar o a Washington. Hanno inoltre fatto riferimento a numerosi r7apporti pubblicati dal Bookings Doha Center che, per esempio, mettevano in questione gli sforzi del governo qatarino di migliorare il suo sistema educativo o che criticavano il ruolo svolto nel sostenere i militanti in Siria.

Tuttavia, nel 2012, quando una versione rivista dell’accordo è stata firmata dal Brookings e dal governo del Qatar, lo stesso ministro degli Esteri qatarino ha annunciato che “il centro assumerà il suo ruolo nel riflettere la brillante immagine del Qatar nei media internazionali, soprattutto in quelli americani”. Anche alcuni funzionari del Brookings  hanno ammesso di aver avuto incontri regolari con funzionari governativi qatarini circa le attività e il bilancio del centro e che l’ex primo ministro del Qatar è nel comitato consultivo dell’organizzazione.

Saleem Ali, che è stato socio al Brookings Doha Center in Qatar, ha dichiarato che questa politica, sebbene non scritta, era abbastanza chiara: “C’era una zona interdetta al momento di criticare il governo del Qatar”, ha dichiarato Ali, ora professore presso la University of Queensland in Australia. “Per i ricercatori sul campo era preoccupante, ma era il prezzo che dovevamo pagare”.

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