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“Hijab. Il velo e la libertà” di Giorgia Butera e Tiziana Ciavardini

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Pubblicato a luglio 2020 da Castelvecchi Editore, “Hijab. Il velo e la libertà” è un saggio attraverso il quale le due autrici, Giorgia Butera e Tiziana Ciavardini, affrontano il tema del velo islamico, facendo ricorso anche a testimonianze dirette di donne musulmane e non, che esprimono il proprio punto di vista su un oggetto assurto a tema divisivo, sia in Occidente che nei paesi di religione musulmana.

L’obiettivo del testo, che si fregia della prefazione a firma di Emma Bonino, è quello di “capire le ragioni di ciascuna donna, di colei che con orgoglio indossa il velo, o di chi lo ritiene una prigione”. In sostanza, le autrici pongono marcatamente l’accento sul tema della libertà di scelta della donna: dovrebbe essere solo il suo libero arbitrio a determinare la decisione di indossare o meno il velo.

Tuttavia, su questa che potrebbe sembrare una asserzione perfino banale nell’accezione sociologica occidentale, si innesca un dibattito dai forti connotati politici e culturali, che spesso sfociano in un vero e proprio scontro. È innegabile che in Occidente l’Islam viene percepito come una religione misogina, che sottomette le donne e le costringe a una pesante subalternità all’uomo, che esternamente si esprime attraverso un codice di abbigliamento che impone l’uso del velo. Naturalmente tale visione è pregna di pregiudizi e stereotipi che nascono dalla mancanza di conoscenza, da un lato, e dall’arroccamento politico conservatore, dall’altro.

Le autrici del volume volutamente riportano i versetti del Corano dalla cui interpretazione sarebbe derivata l’imposizione del velo islamico (sura XXXIII versetto 59 e sura XXIV versetto 31). Dalla attenta lettura di tali versi si deduce una raccomandazione – che non è dunque imposizione – a celare, coprire ciò che è bello in una accezione spirituale e non meramente fisica. Ma l’interpretazione ortodossa nel corso dei secoli ha portato a quell’obbligo fondamentalista di cui oggi si dibatte.

Il velo non è un simbolo originario dell’Islam. Assiri, Sumeri ed Egizi, e la gran parte delle popolazioni che abitavano il Medio Oriente, usavano il velo”. Dunque parliamo di un indumento che pre esiste rispetto all’avvento della religione di Maometto e che diventa simbolo di una differente considerazione delle donne solo con il Codice di Hammurabi, nell’ambito del quale “si legge che le donne devono coprirsi il capo in segno di umiltà e di sottomissione alla divinità”.

Il velo quindi come simbolo di identità religiosa, ma anche culturale e sociale.

Il velo quale strumento per preservare la purezza delle donne e salvaguardarle dagli impulsi sessuali dei maschi. Secondo questa teoria, marcatamente maschilista, si impone alle donne di coprirsi per evitare gli assalti famelici degli uomini. In tal modo la donna verrebbe elevata a bene inviolabile.

Facile il rovesciamento della questione: perché deve essere la donna a tenere a bada gli appetiti sessuali degli uomini? Dov’è il loro autocontrollo? Di certo un tema su cui continuare a dibattere, soprattutto in ottica femminista e di genere.

Ma qualunque sia il significato che si attribuisce al velo islamico, ciò che preme alle due autrici è sottolineare la necessità di riconoscere comunque alla donna la libertà di scegliere se indossarlo oppure no. 

Il velo è un mezzo col quale manifestare la propria libertà religiosa anche in realtà che, seppur completamente diverse dalla propria, sono in grado di tollerare la diversità senza pregiudizi sterili e superficiali”. Chi parla è Alessandra, una donna non musulmana.

Un capitolo a parte è dedicato al “caso Iran”, ovvero al paese nel quale il velo islamico costituisce una imposizione prevista dalle leggi della Repubblica Islamica, introdotto all’indomani della rivoluzione khomeinista. Nel paese degli Ayatollah numerose sono le donne che quotidianamente sfidano le autorità strappandosi il velo dalla testa, atto di estrema ribellione e di affermazione della propria autodeterminazione. E sono molte le donne che a causa di ciò scontano durissime pene nelle carceri sparse per il paese. Un caso su tutte, ricordato nel volume, è quello di Nasrin Sotoudeh, l’avvocata condannata a 38 anni e 148 frustate per aver difeso le donne che avevano protestato contro l’imposizione del velo. 

Grazie al coraggio di donne come Nasrin, in molti paesi sono state avviate campagne di sensibilizzazione che spingono affinchè le donne musulmane possano essere libere di scegliere se indossare o meno il velo, rifiutandone l’imposizione. 

Una libera scelta che, come concludono le autrici di questo volume, diventa essa stessa espressione di emancipazione femminile.