Studiare oggi le questioni di genere in contesto islamico significa confrontarsi con le critiche al pensiero Orientalista. L’influenza del colonialismo sulle questioni di genere in Medio Oriente, decostruire lo stereotipo della donna musulmana debole e oppressa e dell’Islam come unica causa della sua oppressione sono i punti cardine di una nuova “letteratura critica” che i ricercatori non possono ignorare
di Rochelle Layla Terman, al-Quds, (19/07/2020). Traduzione e sintesi di Francesca Paolini
Negli ultimi decenni nel mondo islamico si sono moltiplicati gli studi sulla donna e sul genere, che hanno dato vita ad una nuova “letteratura critica”. Nonostante i diversi approcci e argomenti trattati, questi lavori hanno in comune la critica all’Orientalismo e la decostruzione dell’immagine della donna musulmana come soggetto oppresso. L’Orientalismo è comunemente collegato ad Edward Said che usò il termine in riferimento alle rappresentazioni storiche dell’Oriente diffuse in Europa che, attraverso categorie essenzialistiche e binarie, presentavano l’Occidente come moderno, razionale e liberatorio in opposizione all’Oriente tradizionale, irrazionale e oppressivo.
L’Orientalismo non ha quindi strutturato la sola conoscenza dell’Oriente ma ha contribuito alla costruzione dell’Occidente, presentato come culturalmente e politicamente superiore in modo da legittimarne la supremazia. Proprio la visione della donna musulmana intrappolata e sottomessa alla cultura patriarcale è una delle chiavi del pensiero Orientalista.
Una gran parte della “letteratura critica” fa riferimento alla centralità della questione di genere nel progetto coloniale, dove l’immagine della donna oppressa è stata usata per giustificare e legittimare il colonialismo. Dopo l’11 Settembre questa stessa logica è stata riprodotta nella guerra al terrorismo e, proprio attraverso la promozione della soluzione militare e della “liberazione” delle afghane e delle irachene, l’Orientalismo è entrato definitivamente nella sfera politica. Mettere in discussione l’Orientalismo e i suoi stereotipi è quindi diventata una questione fondamentale alla luce del suo rinnovato utilizzo degli ultimi anni. Uno dei punti principali che la “letteratura critica” cerca di sfatare è l’idea ampiamente diffusa per cui l’Islam sia il vero motivo dell’oppressione della donna. Questo tentativo ha portato a nuove elaborazioni teoriche, quali la molteplicità delle interpretazioni delle tradizioni islamiche, l’esplorazione dell’agency della donna, e l’analisi dei meccanismi e dei fenomeni geopolitici transnazionali che definiscono le relazioni tra i due sessi.
Gli studiosi mettono in discussione la visione astorica che vede l’Islam come un insieme di obblighi legali e religiosi immutabili, poiché questo è al contrario caratterizzato da un’incredibile varietà di gruppi religiosi che lo rappresentano, sparsi tra l’Europa orientale, il Sud Africa e persino l’Estremo Oriente. Anche se queste comunità condividono lo stesso Libro Sacro, le loro interpretazioni dell’Islam e le loro pratiche, tra cui quelle che disciplinano le relazioni di genere, sono fortemente diverse tra loro. L’Islam viene ridotto spesso ad una variabile che produce ovunque gli stessi effetti, ignorando i diversi fattori interni, economici e politici, che danno una forma differente alle stesse istituzioni islamiche. Oltre ad analizzare l’influenza dei fattori economici sulla disuguaglianza di genere, risulta necessario porsi alcune domande per ritracciare il modo in cui le politiche di genere vengono negoziate tra le parti politiche: perché le questioni di genere vengono politicizzate? In che modo avviene la loro politicizzazione nei diversi paesi? In che modo lo stato influenza le componenti religiose e collabora con loro per stabilire gli statuti personali o altre istituzioni che influenzano la vita della donna?
La letteratura critica mette poi in discussione lo stereotipo della donna musulmana come vittima passiva. A tal proposito “il femminismo islamico” rigetta l’idea che i diritti delle donne siano estranei all’Islam e importati dall’Occidente, poiché questi trovano fondamento nello stesso Corano, e nella reinterpretazione di alcune parti del testo sacro, che ha in origine offerto protezione e emancipazione alla donna. Secondo Saba Mahmoud l’agency delle donne pie si manifesta proprio nell’accettazione di alcune norme del patriarcato, come la modestia e la separazione dei generi; questa scelta non va però bollata come una cieca ideologia poiché spesso le donne si muovono volontariamente dentro quelle “catene” religiose – anche se dai tratti patriarcali – che permettono loro di soddisfare e rafforzare i propri interessi personali. In altre parole le donne non hanno sempre la volontà di liberarsi da queste “catene”, termine per altro fuorviante poiché gli ambienti religiosi possono offrire le stesse risorse e opportunità concesse dalle alternative secolari.
Infine la letteratura critica evidenzia l’importanza del contesto globale nello studio delle questioni di genere delle società islamiche, fortemente influenzate dai processi transnazionali di colonialismo e di state-building. Non a caso il diritto di famiglia e i moderni statuti personali ispirati ai precetti islamici, fondano le loro radici proprio nell’epoca del governo coloniale. Un esempio è lo studio comparato di Iza Hussin che, confrontando Malesia, Egitto e India, dimostra come l’ambito di dominio della Legge Islamica sia stato prodotto e codificato dopo una serie di incontri tra i governatori stranieri e l’elite locali. I corpi delle donne erano infatti terreno di scontro politico, poiché prese come simbolo della visione di modernità, identità nazionale o sovranità che si voleva creare. Basti pensare all’Iran dove lo svelamento forzato imposto all’epoca dello Shah portò all’innalzamento del chador a simbolo dell’antimperialismo dopo la Rivoluzione Islamica; o ancora all’Algeria dove il velo, dopo la campagna francese per la rimozione del niqab, venne politicizzato e divenuto simbolo della resistenza anti-coloniale.
Il dibattito sui diritti della donna nei paesi arabi si è formato quindi, in alcuni casi, attraverso il sentimento anti americano e anti occidentale, poiché gli standard internazionali su questi diritti vengono percepiti come una forma della cultura imperialistica. Ma questo aspetto è presente ovunque all’interno del mondo islamico? E se non fosse così, come si spiegherebbe il diverso modo di percepire un nesso tra diritti della donna, egemonia americana e imperialismo culturale? A tal proposito forniscono una risposta Blaydes e Linzer in uno studio del 2012 sostenendo che le radici dell’antiamericanismo derivano in realtà dalla rivalità interna tra partiti religiosi e partiti secolari nel Medio Oriente.
È necessario infine comprendere meglio l’influenza che l’intervento militare straniero e le continue guerre hanno sulla vita della donna in Medio Oriente e anche per questo le ricerche comparate risultano uno strumento fondamentale, che deve però ancora apprendere molto dalle critiche dell’Orientalismo. Quest’ultime non sono tuttavia prive di difetti poiché sminuiscono spesso il valore delle relazioni sociali a favore dell’analisi delle sole rappresentazioni, ignorano le istituzioni patriarcali locali che non derivano dall’Occidente e tendono a confondere ogni condanna alla disuguaglianza di genere in contesto islamico con il pensiero orientalista. Inoltre questa letteratura critica utilizza speso affermazioni empiriche ma senza verificarle o peggio ancora presentandole come un credo sacro. Chi fa ricerca comparata dovrebbe quindi assumersi il compito di testare queste informazioni e compararle con i dati disponibili, cosa che arricchirebbe il dibattito teorico e lo spingerebbe a superare la stagnazione che segue la teoria dell’Orientalismo.
Rochelle Layla Terman è una ricercatrice americana per il Dipartimento di Scienze Politiche all’università di Chicago. L’articolo è stato pubblicato nella rivista “Annuari di Politiche Comparate” e tradotta in arabo per al-Quds da Salah al-Razuq.