Di Mussa Hattar. Your Middle East (15/09/2016). Traduzione e sintesi di Silvia Di Cesare.
In Giordania, un alleato chiave dell’Occidente lodato per la sua stabilità, arriva in un momento in cui la nazione è stretta tra i conflitti regionali e le agitazioni interne.
I funzionari della Fratellanza Musulmana e gli analisti dicono che il voto del prossimo 20 settembre rappresenterà un test chiave dell’abilità del governo di portare avanti elezioni regolari e sulla sua volontà di accettare i risultati, che probabilmente verteranno a favore degli islamisti. “Tutto ciò che vogliamo sono elezioni credibili che rappresentino veramente il volere del popolo”, ha detto all’AFP Zaki Bani Rsheid, secondo-al-comando dei Fratelli Musulmani giordani.
Il Fronte d’Azione Islamico (FAI), braccio politico della Fratellanza, un tempo era il più grande partito in parlamento: nel 1989 aveva 22 parlamentari su 80. La Primavera Araba e il mancato rinnovo della licenza prescritta per i partiti politici, ha però indebolito la Fratellanza che si è vista chiudere molti uffici nel 2014. Per questo il FAI ha boicottato le elezioni del 2010 e del 2013, in protesta contro un sistema elettorale che, secondo la Fratellanza, indebolisce i partiti favorendo i candidati filo-governativi e quelli vicini alle tribù.
La decisione di partecipare a queste elezioni, presa dopo l’emendamento alla legge elettorale avvenuto lo scorso marzo, è vista dagli analisti come un test per sondare la sua influenza dopo anni di ostracismo e lotte intestine. “La Fratellanza vuole […] garantirsi dei seggi in parlamento così da poter ricostruire la sua legittimità e rinnovare i suoi contatti con il governo”, ha dichiarato Oreib Rentawi, capo del Contro sugli Studi Politici Al-Quds.
Anche se la Giordania è riuscita a evitare la violenta rivolta che ha coinvolto i Paesi arabi dal 2011, nella nazione stanno comunque crescendo molti problemi che potrebbero innescare un periodo di instabilità. Membro chiave della coalizione guidata dagli Stati Uniti nella sua battaglia contro i jihadisti in Siria e Iraq, la Giordania ospita oltre 600mila rifugiati, secondo i dati ONU. Amman afferma che questi sono oltre 1,4 milioni.
La disoccupazione è al 14 per cento e lo scorso mese il Fondo Monetario Internazionale ha approvato un prestito di 723 milioni di dollari in 3 anni, per supportare le riforme economiche e finanziare.
In questo si inseriscono anche le pressioni della Fratellanza Musulmana che reclamano una nuova riforma elettorale al governo: Amman ha modificato la legge elettorale per consentire ai partiti politici di presentare una propria lista e ha riservato 15 seggi alle donne. I Fratelli Musulmani però non si accontentano e chiedono ulteriori cambiamenti, tra cui un’emendamento alla Costituzione che permetta al parlamento di eleggere il governo, togliendo al re il potere di eleggere il primo ministro.
Se per Rentawi il voto della prossima settimana è un “test per la popolarità della Fratellanza”, per l’analista Labib Qamhawi queste elezioni potrebbero consentire al FAI di ottenere molti seggi e destabilizzare ulteriormente il regno – cosa che la corte reale non può tollerare. “Lo Stato non permetterà libere elezioni come nel 1989”, ha detto Qamhawi. “Non può correre questo rischio dal momento che sta attraversando un periodo delicato. Un parlamento forte sconvolge il potere”.
Mussa Hattar è un giornalista giordano e corrispondente di AFP di Amman.
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