Di Asmaa Al-Ghoul. Al-Monitor (04/11/2013).
Traduzione e sintesi di Omar Bonetti.
“Ehi, cioccolatino!”, “Ehi, cappuccino!”, “Galaxy!” (una marca di cioccolato), “Ehi, nero!”: queste sono alcune delle esclamazione che gli abitanti della striscia di Gaza usano per prendere in giro le persone di colore appartenenti alla comunità africana gazawi.
Le testimonianze
Samah Al-Rawagh (33 anni), un’attivista politica, ha minimizzato l’importanza della questione durante l’intervista con l’inviata di Al-Monitor. Ma suo padre, il sig. Ahmad Al-Rawagh (80 anni) è di un’altra opinione: “Ho lottato molto per superare le difficoltà che il colore della pelle mi ha imposto. Sono sempre stato costretto a dimostrare più degli altri, a scuola, al lavoro, nella vita”. Il padre Samah rivela anche che i suoi nonni, giunti dal Ghana in Palestina agli inizi del secolo scorso, si erano stabiliti nel paese di Rubin, nei pressi di Giaffa. Nel 1948, costretti alla fuga, si sono rifugiati a Gaza. “Però non è mai successo di sentirmi un estraneo in questa terra, la Palestina è la mia patria, da sempre… è la patria di altre diecimila persone di colore che si trovano qui, nella Striscia”, ha aggiunto.
L’uomo ha anche ricordato un episodio di quando lavorava come insegnante, verso la fine degli Anni ’50. Un suo collega aveva invitato al proprio matrimonio tutti gli impiegati della scuola, ad eccezione, appunto, del Sig. Al-Rawagh. “Quel giorno mi sono sentito in imbarazzo ed ho deciso che nessuno della mia famiglia avrebbe mai dovuto passare una cosa simile … Non volevo che il colore della mia pelle fosse un ostacolo per me o per i miei figli, infatti, li ho iscritti in scuole private per evitare che fossero insultati”.
Tuttavia Samah, che non nasconde di aver subito delle discriminazioni, non crede che si tratti di odio: “sento queste frasi, come “ehi tu, Galaxy!”… e certe volte capisco che è per scherzo, raramente hanno l’intenzione d’infastidire”.
Storia orale
Anche se non ci sono fonti storiche chiare sulla minoranza africana a Gaza, la tradizione di trasmissione orale, che avviene in ogni famiglia, supplisce questa mancanza d’informazioni. Per esempio, il giornalista Ali Bakhit (28 anni) è venuto a sapere dallo zio che la sua famiglia proviene dal Ghana. “Molti africani sono arrivati in Palestina al tempo delle conquiste islamiche, nello specifico quando il califfo Omar Ibn Al-Khattab entrò a Gerusalemme. In seguito, nel XVII secolo, arrivarono gruppi dal Chad, dalla Nigeria, dal Sudan e dal Senegal, sia per motivi religiosi sia per partecipare alla resistenza”, ha aggiunto il giornalista.
Anche lo scrittore Ibrahim Sakik , nei suoi libri “Gaza nel corso della storia” e “La storia della ricchezza di Gaza”, descrive il “fiorente” mercato degli schiavi di Gaza e prova che una parte degli abitanti del paese di Berbara è di origine marocchina.
Secondo Salim Al-Moubayed, invece, la maggior parte delle famiglie di colore gazawi sono arrivate dal Sudan o dall’Egitto per cercare lavoro o per servire nell’esercito ottomano.
Il ghetto
Nella città di Gaza c’è un quartiere in cui vivono molte persone di colore. La zona è chiamata dai residenti o da taxisti “il quartiere dei neri”. Mohammad Abu Rashed (13 anni) racconta: “A scuola mi chiamano cioccolatino ma io non gli do retta”. Il suo amico Ahed (17 anni), però, lo interrompe: “sei un bugiardo, certo che ci prendono in giro!”. Ahed, infatti, indicando un ragazzo bianco, afferma: “Quello lì, per esempio, ci chiama sempre ‘ehi tu cioccolatino, ehi tu nero!’”. Il ragazzino, sentendosi interpellato, risponde sorridendo: “Perché vi voglio bene”.
Infine, Abd Al-Rawagh (21 anni) racconta con dolore che le ragazze o le donne bianche non entrano nel negozio di generi alimentari in cui lavora perché vi è la credenza che i neri le potrebbero molestare.
Il futuro
Il giornalista Bakhit, che abita nel campo di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza, riporta un episodio avvenuto con l’apparato di sicurezza a Gaza dopo il 2007: “Stavo salendo in taxi con mio fratello quando un poliziotto, vedendoci, ci ha ordinato di scendere. Siamo andati così al posto di controllo dove il gendarme ha controllato che non fossimo sospetti. Mi sentivo insultato e quando il taxista mi ha chiesto cosa fosse successo, gli ho detto ‘ora siamo a Chicago!!!’”.
Nonostante ciò, Bakhit conclude: “Sono felice di abitare a Gaza e sento di appartenerle. Non ho paura di crescere i miei figli, qui, in questa società”.
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