La figura dell’esploratore ha sempre suscitato un certo fascino sull’immaginario collettivo, sul mio in particolare, per il suo evocare immagini di paesi lontani, popoli, storie e tradizioni, continuo oggetto della brama di conoscenza dell’uomo. E quando l’esploratore poi, è il reporter e ricercatore Franco Guarino, l’interesse e la curiosità raggiungono livelli entusiasmanti, perché ti rendi conto che i suoi sono occhi che osservano ma non invadono, che schivano il sensazionalismo e gli scoop giornalistici e entrano nella specificità culturale di un popolo con discrezione, rispettandone anche gli aspetti apparentemente meno comprensibili. Con grande genuinità mi ha raccontato la sua esperienza alla scoperta del mondo, racconti di viaggio e di vita intorno a popoli e etnie di cui difende fermamente usi e costumi, con particolare riferimento all’Afghanistan. Con estrema naturalezza racconta del suo tè con il Mullah Omar e Osama Bin Laden, tra la mia, comprensibile, incredulità mista a stupore. E’ tutto vero, semplice e soprattutto, normale. Ben lungi dunque, da quel giornalismo radical chic che a volte si incontra tra gli esperti. Nel suo approccio con quelli che definisce “popoli maestri”, Franco Guarino ha favorito l’aspetto umano, esprimendo idee, forse, non sempre condivisibili da tutti ma, di certo, da rispettare e da lui difese con convinzione. L’intervista è nella versione integrale perchè nulla di quanto mi è stato narrato può essere considerato marginale. E’ storia di vita.
Hai esplorato il mondo in lungo e in largo, come è nato il tuo amore per la ricerca?
Fin da adolescente ho iniziato a viaggiare sulla catena montuosa delle Alpi, montavo i ripetitori di Ponti Radio sulle montagne. Vivevo spesso con pastori e contadini. In quel periodo ho notato la differenza tra i popoli di montagna e quelli che vivevano in città. Così mi è venuta l’idea di vedere se anche da altre parti fosse così. Ho iniziato in Europa, viaggiavo con tutti i mezzi tra genti diverse, senza spendere molti soldi. Al centro dei miei studi c’era sempre la popolazione, la sua storia, la religione e la vita quotidiana. Naturalmente, per conoscere, mi sono spostato quasi sempre via terra, nelle zone dove esse vivevano. Ogni anno mettevo i soldi da parte per fare un viaggio, normalmente programmato e studiato. Dopo l’Europa ho viaggiato nel Maghreb e Medio Oriente, gradualmente poi mi sono spinto nell’Africa Nera. In particolare seguivo i grandi fiumi, Nilo, Niger, Zambesi, Congo e altri. Non sono mancate tante difficoltà, spesso andavo da solo, ma alla fine me la sono cavata sempre rispettando gli usi, i costumi e le religioni. Poi ho cominciato a viaggiare nelle Americhe, ho risalito il grande Rio delle Amazzoni fino alle sorgenti geografiche su un vulcano del Perù. Questa è stata una vera soddisfazione perché le sorgenti geografiche non erano conosciute, così, dopo alcune conferenze alle Università geografiche, mi hanno attribuito la prima scoperta delle sorgenti del Rio Amazonas. Ho poi ripercorso le rotte marittime dei grandi navigatori, di personaggi storici come Abramo, Darwin, Marco Polo e molti altri. Mi sono inoltrato spesso in tutta l’Asia, percorrendo vecchie vie carovaniere, la via della seta. Ho conosciuto molti popoli e mi sono dato alcune risposte che cercavo. Poi la mia esperienza ha incluso il Monte Everest nel 1978. Nel 1979 la RAI TG1 e le Nazioni Unite hanno voluto utilizzare le mie esplorazioni geografiche per alcuni reportage e per approfondire aspetti ecologici, in particolare le motivazioni delle difficoltà di vita dei popoli e in special modo di quelli in pericolo di estinzione. Ho abbandonato il mio lavoro di tecnico in Telecomunicazioni per passare gradualmente al giornalismo televisivo e a consulente di Agenzie Onu. Ho quindi continuato a viaggiare a tutte le latitudini, compresi deserti, savane, zone polari. Il viaggio per capire, dura ancora oggi, perché non si finisce mai, il mondo cambia e la conoscenza ricomincia. Per fare questo ho fatto molte rinunce, familiari, amici, la mia cultura e tante altre cose. Mi sono trasformato in un uomo globale.
Il tuo primo viaggio in Afghanistan risale al 1973. Che tipo di situazione avevi trovato?
Nel primo itinerario lungo la via della seta, attraversai la ex Jugoslavia, Bulgaria, Turchia, Iran per giungere al confine afghano presso Herat. Avevo un vecchio minibus e arrivai dopo 1000 km a
Kabul. Sembrava un’oasi medioevale, tutto tranquillo, gente gentile e dignitosa. Alloggiai in un giardino dell’Albergo Mustafà, vecchia stazione carovaniera, con i letti all’aperto. Era luglio, nel vicino palazzo reale c’era il re Zahir e la sua famiglia. Quel mese di luglio, all’alba sentii un colpo di cannone, era il colpo di stato militare. Il re e la sua famiglia si rifugiarono in Italia, io fui preso, messo in un recinto e guardato a vista. Poi, una sera, riuscii a scappare corrompendo un militare. Seguii il fiume Kabul a piedi, attraversai il Kkyber Pass ed entrai nella zona tribale del Waziristan, poi, finalmente arrivai in Pakistan. Di questa storia ho solo qualche vecchia foto. Da quel momento ho continuato a seguire la storia dell’Afghanistan nel grande gioco geopolitico dell’Asia Centrale.
Sei stato l’unico reporter che è riuscito a intervistare il Mullah Omar. Come ricordi quell’incontro?
Nel febbraio 2001 i Talebani consentirono il mio ingresso nella regione proibita di Helmand, nel deserto del Registan. Ero stato introdotto con la garanzia Onu, per un reportage reale sui Talebani, 45 minuti per il TG1 Speciali. Ero a Kandahar, la capitale spirituale degli Emirati Islamici dell’Afghanistan. Nella città di Kandahar, gli altoparlanti diffondevano sempre i versetti e i canti religiosi. Alcuni mullah mi raccontavano delle guerre e dei problemi di quasi 30 milioni di Afghani, mi trovavo a pochi metri dalla residenza del Mullah Omar e dalla sede del governo dei Talebani. Un giorno vennero a prendermi quelli della scorta e in moto mi portarono nel giardino situato dentro le mura di cinta colorate di bianco e di verde, con al centro la bandiera bianca dei Talebani. Seduto su un cuscino ricamato nero e rosso, iniziai a parlare con il Mullah Omar, non aveva il turbante, capelli neri corti e barba lunga sul palmo, si notava la ferita all’occhio avuta in guerra. Mi disse subito che il nostro non era un incontro giornalistico, ma tra due uomini e basta, senza microfoni, né telecamera. Parlammo della guerra al traffico di oppio, del suo impegno a distruggerlo, della volontà di instaurare la shari’a, di riportare il paese alle tradizioni. Poi volle che raccontassi dove vivevo e le cose che avevo visto nel mondo. Aveva tre mogli, la più giovane era una delle figlie di Osama Bin Laden. Osama arrivò dopo un po’ e si sedette di fronte a me, bevemmo il tè afghano, bagnando dei dolci. In inglese parlammo di business, del petrolio del Caspio, della pipeline che doveva portare il gas nel Mar Arabico. Poi come si sa, il progetto saltò grazie a Putin. Osama si allontanò con la scorta di una ventina di fuoristrada Toyota. Il Mullah mi disse che potevo rimanere in Afghanistan quanto volevo, ma di stare attento perché il paese era ancora in guerra e seminato di milioni di mine. Riuscii poi a usare la telecamera Sony, di nascosto, per realizzare il reportage andato in onda sul TG1. Lasciai l’Afghanistan scortato dai Talebani, vicino all’aeroporto vidi anche il quartier generale di Osama. Tutto comunque sembrava tranquillo. Attraversato il deserto del Registan, arrivai nel sud del Pakistan, nella città di Quetta. Come promesso ai Talebani, non enfatizzai molto questa esperienza, ancora adesso ne parlo poco, fu un’ esperienza umana, prima che giornalistica. Otto mesi dopo, l’11 settembre, tutto cambiò. Non credo di ritornare più in Afghanistan, ci sono stato 10 volte, vorrei ricordarlo come l’ho visto, senza l’invasione e l’inquinamento umano, tradizionale e culturale in atto.
Hai conosciuto anche il Generale Massoud?
Incontrai anche il Generale Massoud, nella sua Valle del Panshir, al confine con il Tagikistan, due volte, una durante la guerra con i Russi, l’altra nel 2000 quando combatteva i Talebani. Un uomo complesso, legato alla famiglia, un esperto militare, gli piaceva l’Italia, mi fece molte domande. Fui uno degli ultimi reporter a parlargli. Come si sa, venne ucciso il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attentato alle Torri gemelle. La sua leggenda rimane nelle vallate, dove a volte pare ancora di sentire le sue urla contro il nemico.
Hai collaborato con l’Onu nei rapporti annuali sulla coltivazione di oppio. Quale è la situazione attuale e la percentuale di eradicazione?
Ho collaborato su vari aspetti di questi temi, mi sono occupato anche delle produzioni di cocaina in Sud America, delle cannabis e delle droghe sintetiche. Ho studiato le varie mafie internazionali che controllano le regioni di produzione. Le Nazioni Unite hanno un’agenzia a Vienna che è impegnata nella riduzione delle produzioni, in particolare in Sud America e Asia Centrale. La regione di Helmand, in Afghanistan, produce molto oppio, ma il sistema è in mano a mafie tribali, trafficanti iraniani, russi, tagiki, uzbeki, e soprattutto pakistani che riforniscono il mercato internazionale. C’è un accordo dei sopracitati e di molti governi di lasciare tutto come è, una volontà politica tollerata. Le Nazioni Unite potrebbero fare molto di più se non avessero contro lo scenario mafioso internazionale. I contadini sono l’ultima ruota del carro, vengono ricattati e minacciati da tutti. Attualmente, pur con la presenza di migliaia di militari internazionali, tutto procede come al solito. Fanno finta di non vedere…Cosi l’Onu combatte una battaglia persa in partenza.
Come giudichi il ruolo e l’operato della coalizione in Afghanistan?
Il mio parere personale non può essere molto comune, in quanto la mia esperienza in Afghanistan è stata soprattutto umana e culturale. Ho conosciuto il tribalismo e la voglia delle etnie di stare insieme cercando di eliminare le rivalità. Poi gli equilibri iniziarono a cambiare quando Inglesi, Americani e Russi decisero di interessarsi alle materie prime, alla via della seta e alla possibilità di transito verso il Belucistan e lo sbocco al Mar Arabico. Detto questo, ritengo che i problemi interni ai popoli, debbano essere risolti da loro stessi. Dopo l’11 settembre, la caccia a Bin Laden ha fatto pagare duri prezzi alla popolazione inerme. Tutti i soldi spesi per la Coalizione potevano servire veramente a mettere a posto il paese. La cosa più grave è che si sta verificando anche un inquinamento culturale irreversibile che cancellerà un prezioso patrimonio culturale di tutti, universale….Quindi, sono contrario.
Il popolo afghano vome vive la presenza “straniera” ?
Gli Afghani sono 30 milioni, molti sono fuori dai giochi stranieri, risentono poco della loro presenza. I soldati e gli altri, penso che recitino la parte di quelli che accettano nuovi metodi, ma soprattutto gli anziani, in cuor loro, odiano l’invasione, accettano anche per soldi, come le prostitute afghane che si prostituiscono odiando il partner straniero. I giovani nati dopo il 2001 sono meno afghani, stanno perdendo gradualmente la loro identità, alcuni, inconsciamente, copiano i modelli demenziali televisivi che propongono modelli fallimentari, già sperimentati in occidente… Un disastro…
Che idea ti sei fatto dei Talebani?
Gli studenti musulmani del Corano, sono essenzialmente uomini puri, appartengono all’etnia Pashtun, sono originari dell’India Himalayana e la valle del fiume Hindu. Hanno un senso dell’ospitalità grandissimo, rispetto a noi sono molto ingenui, non hanno raffinatezze culturali. Dopo il ’79, con l’invasione sovietica, sono stati costretti ad armarsi e a lasciare le scuole coraniche. I vecchi sono ancora legati alle tradizioni e alle culture tribali, i più giovani sono cresciuti, loro malgrado, con le armi e hanno lottato per la vita tra bombe e campi minati. Alcuni, per disperazione e per soldi si sono dati al banditismo. Io sono stato con loro spesso, li ricordo anche giocare nei loro villaggi quando li visitavo. Giocavano con le biglie di vetro, con le pietre rotonde, con i cerchi di ruote. Al tramonto tutti a dormire, all’alba tutti in piedi a fare i pastori o ad aiutare la famiglia. Ci sarebbero tante cose da raccontare…loro sono afghani e basta.. i Talebani come li abbiamo dipinti noi non esistono. In ogni caso, difendono la loro patria e la loro religione. Io sono stato l’unico giornalista occidentale che loro hanno accettato, una soddisfazione che conferma che la semplicità e il rispetto degli altri spesso premiano. Spero che presto anche per loro arrivi la pace. Il terrorismo è un’altra cosa. Il mio ricordo è quindi positivo e non potrebbe essere diversamente, guardando la mia esperienza umana.
Cosa è per te l’11 settembre 2001?
Secondo me, è stato un progetto organizzato da più potenze con vari motivi, quanto accaduto è stato calcolato nei particolari. Il risultato ottenuto è stato che i paesi vittime hanno ottenuto un consenso politico e non, di ampiezza quasi universale. Un consenso che non avrebbero ottenuto con decine di anni di politica estera. Hanno inventato il terrorismo personalizzato, giustificando spesso l’invasione armata e culturale di paesi sovrani. Quindi, al di la della pietà per le vittime, rimangono i vantaggi che hanno portato al dominio del mondo, salvo qualche eccezione… Forse un giorno la storia ci farà capire anche questo.
Usa, Pakistan, India e Iran. Chi altro nel Great Game?
Al centro del Grande Gioco, iniziato a metà dell’800, si trova il Mar Caspio e il Mar Nero. Tutte le nazioni intorno, hanno un ruolo in questo tiro alla fune tra le grandi potenze, a cui si sono aggiunti Cina, India e Corea del Sud. La posta in gioco, come sempre, sono le materie prime, le strade o le rotte marittime per il trasporto. La battaglia è ancora aperta e si gioca anche nelle banche e nei tavoli politici mimetizzati, lontano dai media. La massa, soprattutto in Asia centrale è tagliata fuori. Un altro grande gioco si è aperto nelle regioni Artiche, con l’aggiunta di altri protagonisti. I cambiamenti climatici hanno sciolto molti ghiacci che permettono ricerca e prelievo di materie prime, prima impossibili. C’è un nuovo grande gioco che ha al centro la grande immensa Siberia….
Spesso, il confine tra la specificità culturale di un popolo, che tu difendi molto, e la violazione dei diritti umani, è davvero molto sottile. Cosa pensi, in merito soprattutto alla condizione delle donne in Afghanistan?
Ho conosciuto le donne fin dal 1973, ho fatto in tempo a conoscere la loro vita prima delle guerre. Un approccio sereno senza pregiudizi. Mantenevano i ruoli secolari con l’obiettivo ecologico: famiglia, animali e vegetazione. Un ruolo non marginale, ma superiore a quello degli uomini, un aspetto che chi non conosce l’Afghanistan non può cogliere. Il problema delle donne non esiste, esiste quello della famiglia, della sopravvivenza fisica e culturale. Le donne decidono in casa, l’uomo fuori. Il velo è una tradizione femminile, portato a difesa del proprio corpo e della femminilità. Meglio lasciarle nelle loro tradizioni, quelle che cercano nuovi modelli devono poi prendersi le dovute responsabilità. Dovranno emigrare, perché in Afghanistan si continuano le tradizioni equilibranti che il tempo ha delineato per la lotta alla sopravvivenza culturale e materiale. In India, considerato un paese democratico, ci sono anche le caste e la situazione della donna è peggiore. Ma questo non fa notizia….
Recentemente sei stato anche in Siria. Come giudichi i fatti siriani e più in generale, il fenomeno Primavera araba?
Ho avuto modo di analizzare le cause che hanno spinto la Primavera Araba, penso ad un disegno occidentale con interessi geopolitici legati anche alle materie prime e alle vie di trasporto, come le pipeline su cui l’Israele ha investito per realizzare terminal petroliferi in Mar Rosso e Mediterraneo. La primavera quindi, lascerà la gente alla fame come prima, se non peggio. Distruggerà secoli di storia e tradizioni, io la chiamo l’11 settembre del Medio Oriente. La Siria è un paese civile da millenni, un paese stabile ora violentato da interessi esterni.. Ho amici ad Aleppo, Lattakia, e Tartus, ho pena per loro, chissà che fine hanno fatto. Un pensiero va anche ai musei e ai siti archeologici di valore universale, una tragedia culturale che sta cancellando sotto le bombe un patrimonio di tutti noi. Ho pena per tutto ciò e per i mercenari che rimarranno con un pugno di mosche, come è successo in Libia, Tunisia, Egitto e via dicendo… Ora toccherà al Libano, poi alla Giordania e la famosa primavera oscura forse si arresterà sul Golfo Persico, nella terra dei Sumeri ..dove la nostra storia ebbe inizio…
Libertà e democrazia possono essere “esportate”?
Le culture formano il pensiero di libertà, sono influenzate da storie e habitat differenti, quindi non sono tutte uguali, possono essere esportate forse solo in parte. La democrazia in parte potrebbe essere esportabile se radicata e genuina, non mi risulta che queste condizioni esistano veramente da chi si erge a giudice, quindi niente esportazione democratica. Meglio lasciare l’Africa agli Africani, l’Asia agli Asiatici, il Latino America ai Sudamericani…Taranto ai Tarantini…nel bene e nel male…
Il ricordo più bello che ti ha lasciato il popolo afghano?
Una grande lezione di vita che difendo e conservo gelosamente …..strano ma è tutto vero.
Katia Cerratti
Video del reportage”Afghanistan”: http://www.youtube.com/watch?v=Qr-xEn4AaIM
FRANCO GUARINO: Nato a Taranto nel 1945, dal 1970 al 1981 Franco Guarino, che ha anche approfondita conoscenza in materia di telecomunicazioni, ha compiuto diverse missioni in tutto il mondo in qualità di esploratore-ricercatore, collaborando a programmi di Agenzie delle Nazioni Unite.
Ha percorso itinerari lungo i sistemi fluviali del Nilo Bianco e Azzurro, Niger, Congo –Zaire e Zambesi in Africa, Rio Orinoco, Rio delle Amazzoni, Mississippi-Missouri, Rio Paranà, Paraguay in America, Tigri e Eufrate in Medio Oriente, Yan Tze (Fiume Azzurro), Bramaputra, Indo, Mekong, Gange in Asia; in particolare lungo le antiche vie commerciali e i percorsi degli esploratori del passato.
Nel 1978 è salito sul Monte Everest, giungendo a quota 8.000 nella regione del Colle sud. Ha inoltre scalato montagne in Himalaya, Ande, Alpi, Karakorum e Islanda; ha partecipato e guidato diverse spedizioni scientifiche nelle regioni Artiche, Antartiche, Groenlandia, nei deserti: Sahariano, dei Gobi in Mongolia, Atacama in Sud America, in Amazzonia, Terra del Fuoco e foreste africane e asiatiche.
Dal 1981, pur continuando esplorazioni e ricerche, Guarino è passato gradualmente alla professione di reporter televisivo, collaborando con la Rai e con l’ONU, realizzando in tutto il mondo, reportage e approfondimenti geopolitici, culturali, scientifici, sui diritti umani e sui conflitti territoriali e bellici. Recentemente ha realizzato alcuni documentari su esplorazioni geografiche, ecosistemi e cambiamenti climatici. Collabora attivamente con RaiNews24 per cui ha realizzato numerosi reportage, il più recente “Taranto dolce amara”, sul caso Ilva.
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